Il Pci e il peso di una storia troppo scomoda da poter raccontare

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Il Pci e il peso di una storia troppo scomoda da poter raccontare

25 Novembre 2007

Nel marzo del 1973, mentre si celebra la campagna di
reclutamento, l’Ufficio politico di Botteghe Oscure stila al termine di una
riunione nervosa un documento su di un tema apparentemente eccentrico. Oggetto
della preoccupata riflessione dei vertici piccì un libro ad alto rischio.
Autore Giorgio Bocca. Argomento il Migliore.
Il giudizio sul testo  terribile, la
condanna senza appello. Papale, papale “un calcolato tentativo se non di
sminuire la statura di Togliatti… di colpirne la figura umana e morale, e insieme
di deformare la vicenda storica del Pci e del suo gruppo dirigente, di
intaccare il nostro patrimonio ideale e morale”. Alla premessa segue la
diagnosi, quindi la pianificazione per rintuzzare il giornalista e storico
impiccione.

“Tale tentativo”, si legge ancora nel documento, “si
inserisce in una ripresa di anticomunismo terzaforzista e di sinistra, rivolta
a frenare i processi in atto di avvicinamento (di forze intellettuali in
particolare) al Pci e di unità a sinistra”. Ecco dunque la controffensiva: “Si
decide pertanto di pubblicare recensioni (di Gruppi su L’Unità e di Ferri su Rinascita,
dopo quella già apparsa su Paese Sera),
che mettano in luce la tendenziosità, la meschinità, l’inconsistenza (sul piano
storiografico e spesso anche in linea di fatto) del libro di Bocca”.

Buon ultima, un’autentica perla. Ovvero il fermo richiamo a
quegli iscritti, anche di grande nome, un po’ troppo ciarlieri: “per quel che
riguarda le testimonianze”, sempre si
legge sul succitato documento, “fornite a Bocca da alcuni compagni, si decide
di sollecitare i necessari chiarimenti e di affrontare la questione di costume
che ne scaturisce: di affrontarla in termini generali, rilevando in senso
critico e autocritico – non appena si presenterà l’occasione per un intervento
di Berlinguer o per una presa di posizione pubblica in altra forma – l’esigenza
di una maggiore misura e vigilanza da parte di tutti i compagni nelle
manifestazioni esterne delle proprie
opinioni”.

Perbacco, verrebbe da dire. Invece non resta che la presa
d’atto di un linguaggio talmente metallico, bulgaro, eccetera, da rendere
superfluo ogni ulteriore commento. Eppure il piccì, spiegato, in questa bella
ricerca di Andrea Possieri, Il peso della
storia
, è infarcito di chicche dall’analoga energia rivelatrice. E tutto
ciò in un testo per nulla scandalistico, ma scientifico e serio. A Possieri che
studia la “liturgia politica e l’articolato processo di auto-rappresentazione”
del partito quell’episodio non suona sorprendente. Anzi. Semmai in linea con lo
sforzo costante (prosegue, quasi tale quale, anche dopo la Bolognina), di
salvaguardare “il nucleo forte della tradizione del comunismo italiano”
rimuovendone “al tempo stesso” le sue pagine “più controverse”. Al dunque una
“reinvenzione”, in servizio permanente effettivo, del passato con il partito
nelle vesti del gran suggeritore, gli intellos in quelle degli operatori sul
campo.

Il saggio di Possieri dice questo e altro ancora. Ed entra
nel merito. Descrive una grande stagione politico-culturale basata però su una
sorta di “rimodulazione” continua e progressiva di identità. Un’operazione ad
alto rischio e ad alta rendita che consente, peraltro, al piccì da un lato “di
incapsulare all’interno della propria cultura politica valori, simboli e parole
d’ordine che provenivano da famiglie politiche del tutto differenti da quella
comunista e, dall’altro lato, di superare i maggiori momenti di crisi gettando
a mare la zavorra politica non più utilizzabile e valorizzando al massimo le
risorse di cui disponeva”.

Andrea Possieri, Il
peso della storia
, il Mulino, pagine 300, euro 24,00