Il Pd conquista Bologna e Torino ma le elezioni, da sempre, si vincono al Sud
17 Maggio 2011
Occorre impegnarsi maggiormente per il Mezzogiorno. Questo mi sembra il messaggio che si deve cogliere da parte delle forze politiche ed economiche moderate del centro destra, per rispondere a un elettorato ansioso di cose concrete, ai fini dello sviluppo economico, di una maggiore libertà, di una equità basata sul senso di responsabilità.
Il luogo ove ha avuto più consensi la coalizione di centro destra sono Napoli e Reggio Calabria. Nella sinistra, a Napoli, si è affermato un candidato estremista, che ha battuto quello del Pd. La linea del Pd paga a Torino e a Milano, ma non nel Sud. E le elezioni politiche italiane, storicamente, si vincono nel Sud, che è stato e sarà determinante. Il centro destra che si è affermato a Napoli è espressione del Mezzogiorno illuminato, che vuole vincere la sfida della rinascita meridionale. Nel Nord, in autorevoli ambienti, si è commesso l’errore di affermare che l’Italia cresce poco per colpa del Mezzogiorno che non cresce abbastanza. Questa tesi gradita politicamente e psicologicamente a certi nordisti non porta nel Nord i consensi che ci si attenderebbero perché è troppo autoreferenziale. E urta contro i dati reali della concreta esperienza, della gente comune, che trovano riscontro nei dati statistici.
Non è statisticamente corretto affermare che la bassa crescita del Pil italiano dipende dal Mezzogiorno. Infatti se è vero che, nel decennio 2001-2009, il Pil del Sud nella media cumulata annua è diminuito dello 0,3% a causa della dinamica avversa dell’ultimo periodo ed a causa della modestissima crescita in quello precedente, è anche vero che, nella media cumulata,il Pil del Centro-Nord nel decennio è cresciuto solo del 2%, dunque di una percentuale modestissima, che non poteva certo servire da traino per il Mezzogiorno e che rivela una situazione strutturale di bassa crescita, che qualcuno, erroneamente, qualifica come malattia giapponese, ma differisce molto da questa.
Aggiungo che nel Sud, certamente, la crisi ha accresciuto l’economia sommersa, che a sua volta è presumibilmente aumentata, anche nel precedente periodo, di più di quel che l’Istat non riesca a censire con il suo debole metodo di indagine. E dunque, esiste un problema italiano di bassa crescita dovuto a fattori strutturali, essenzialmente del Centro Nord, che si può sintetizzare nelle politiche sbagliate che la sinistra post comunista e il sindacato che vi si collega hanno imposto all’Italia e di cui il Sud paga un prezzo differenziale. La Germania, per un certo periodo, è cresciuta meno dell’Italia ma nell’ultimo decennio ha ripreso a crescere ed ora il suo tasso di aumento del Pil sa di nuovo miracolo economico.
Essa ha saputo affrontare il problema dell’Est, ex comunista, il suo Mezzogiorno, mediante il traino che è venuto dalle riforme che ha attuato nel suo cuore industriale e culturale. La prima ragione del nostro ritardo è che in Germania il sistema dei contratti collettivi di lavoro è stato profondamente modificato mediante la libertà di contrattazione periferica e in particolare di contrattazione aziendale, basata sulla produttività. In Italia questi contratti stanno decollando molto faticosamente, con l’opposizione della FIOM e della CGIL, guidata da sindacalisti del Nord Italia, che hanno usato le fabbriche Fiat del Sud come “carne da cannone” per cercare di bloccare questi contratti e hanno riempito di ricorsi giudiziari Fiat auto, che è l’unica impresa europea che ha diminuito la sua produzione in Europa. È soprattutto il Mezzogiorno che paga lo scotto della teoria del contratto nazionale unico. Se si considera il reddito di lavoro del Mezzogiorno per unità di lavoro dipendente rispetto alla media nazionale si nota che esso è minore del differenziale di valore aggiunto. Nel Mezzogiorno la retribuzione per dipendente è di media il 92% di quella nazionale mentre il valore aggiunto per dipendente è lo 86%. Ciò comporta un maggiore incentivo all’economia sommersa e una disoccupazione (ufficiale) maggiore. Basta guardare questi dati sul divario di produttività fra Mezzogiorno e Centro Nord e sul divario di salari per rendersi conto di quale palla al piede sia, per lo sviluppo del Mezzogiorno, questa dottrina, che sino ad ora la Confindustria ha fatto molta fatica a superare e che è stata imposta alla nazione all’epoca della concertazione, con la presidenza di Luca Cordero di Montezemolo e i governi della sinistra della seconda Repubblica.
La prima ragione per cui il Mezzogiorno fa fatica a crescere è questa. E la colpa in questo caso è di una classe dirigente politica, economica e sindacale del Centro Nord. C’è un secondo aspetto per cui l’Italia, in questo decennio, fa fatica a crescere come i paesi del Nord dell’Europa e per una responsabilità della sinistra italiana, guidata da uomini politici e da centri di potere economico del Centro Nord, con un danno particolare per il Mezzogiorno. Ed è la politica di privatizzazioni che fu effettuata a cavallo fra la prima e la seconda repubblica e all’inizio della seconda, come prezzo per rendere rispettabile in Europa e nei circoli finanziari di Piazza Affari, questa sinistra come forza dominante di governo. Così si è coriandolizzata la Finsideder, una delle maggiori imprese siderurgiche europee e il prezzo più alto lo ha pagato Napoli con la chiusura del complesso di Bagnoli, che aveva impianti nuovi. Si è coriandolizzato il gigantesco gruppo alimentare SME e Cirio è finita in dissesto. Si è coriandolizzato il complesso di telefonia telematica di Italtel, con alti danni per Napoli. La Montedison e il gruppo Ferruzzi, leader della chimica e dell’agro industria, non ci sono più. L’Italia ha perso quasi tutte le sue grandi imprese private e ciò ha ridotto in modo rilevante la sua capacità di creare progresso tecnologico e di crescere. Il Mezzogiorno ne ha subito un danno differenziale. Il terzo fattore che ritarda la crescita italiana è costituito dal dirigismo in cui sono state ibernate le grandi infrastrutture con la nuova legislazione sugli appalti pubblici e l’ideologia ambientalista.
Ciò ha impedito che decollassero in tempi ragionevoli grandi opere come la TAV Torino-Lione e il Ponte sullo Stretto. Inoltre non si è ancora sviluppato un sistema di infrastrutture adeguato per collegare il Mezzogiorno al resto dell’Europa sull’asse verticale Nord-Sud e su quello Est-Ovest . Infine esiste una elevata pressione tributaria sulle imprese, che è particolarmente onerosa per l’investimento nel Mezzogiorno, in cui occorrerebbero le nuove iniziative. La Germania ha ridotto di parecchio l’imposta sulle imprese, con un aumento moderato di quella sui consumi. Noi non abbiamo ancora posto mano a questa riforma, che si può fare senza grandi strappi operando sulle molte esenzioni e agevolazioni. L’Italia per crescere ha bisogno di libertà economica, di autonomia dei contratti di lavoro, di infrastrutture e di una fiscalità moderata, per riprendere il cammino della crescita. E il Sud ne ha bisogno in misura differenziale. Non serve stabilire di chi è la colpa della bassa crescita, se non si rimuovono le cause che la impediscono e non serve dire che occorre imitare il modello tedesco, se non lo si fa. Questa è la sfida su cui occorre concentrarsi, cercando di andare al di là del localismo. Il Pd è diventato un partito dell’Italia centrale con una propaggine a Torino (non nel Piemonte). Sarebbe un grave errore se il Pdl si riducesse a partito di Milano con propaggini nell’Italia del Nord.