Il Pd e quella via “postcomunista” di elaborazione della sconfitta
20 Marzo 2018
Vie comuniste e postcomuniste di elaborazione della sconfitta. “Servirà un grande cambio di fase” dice Maurizio Martina a Stefano Cappellini sulla Repubblica del 16 marzo. Ecco una dichiarazione che introduce una variazione ma mantiene qualcosa dello stile del vecchio Pci. Quando Enrico Berlinguer cominciò a perdere elezioni locali e generali alla fine degli anni Settanta, la discussione tra comunisti venne riassunta con questa battuta: “Una flessione, una riflessione”. Oggi siamo entrati nell’epoca di “una fase, una frase”.
Allinearsi al quadro internazionale, necesse est. Ma a quale quadro internazionale? “Il quadro internazionale – europeo e non solo- entro il quale qualsiasi intesa politica dovrà essere collocata nel rispetto dei trattati e delle alleanze”. Stefano Folli evoca sulla Repubblica del 15 marzo il peso del contesto internazionale quasi con lo stile cui l’ambasciatore sovietico lo faceva a Praga prima della caduta del muro di Berlino. Ma al di là dell’eleganza di certe dichiarazioni, c’è un problema di sostanza. Oggi stare rigidamente con i trattati (cioè l’Unione europea) significa entrare in una qualche tensione sul fronte delle alleanze cioè la Nato. L’Italia ha a lungo goduto di una certa libertà perché la sua speciale fedeltà atlantica, le consentiva chance d’iniziativa (vedi ad esempio Enrico Mattei) in Medio Oriente, in Africa e in parte anche in Unione sovietica. E’ veramente utile scegliersi un quadro internazionale che ci consegna mani e piedi all’asse franco-tedesco?
La situazione è così grave che tocca prendere sul serio persino Curzio Maltese. “Se nel centrosinistra fosse rimasto un briciolo di intelligenza politica oggi i dirigenti correrebbero a fare un’alleanza di governo con Di Maio” dice Curzio Maltese all’Huffington Post Italia del 18 marzo. In generale ritengo che chiunque abbia un briciolo di intelligenza politica non debba mai e in nessun caso affidarsi alle riflessioni di uno come Curzio Maltese. In questo caso, però, quel che è interessante non è il suo, per così dire, ragionamento bensì il suo posizionamento: uno scatenato giustizialista con un fondo ben radicato di qualunquistico ribellismo non può non accostarsi ai Cinquestelle ritrovando in questi le sue stesse fonti di ispirazione. E d’altra parte non si può convenire con l’europarlamentare-firma repubblicona, che tali caratteristiche siano ormai ben consolidate anche in un elettorato storicamente di sinistra diseducato da ex comunisti allo sbando e dalla casta di un establishment furbacchione che pensava di riacquisire centralità denunciando la “casta politica”. Alla fine sono da considerare beati quei popoli inglesi, portoghesi, greci dove il radicalismo di sinistra è guidato da politici dalla solida formazione culturale e non da botoli ringhiosi da salotto come Maltese e da cagnolini da accompagnamento come Luigi Di Maio.
C’è modo e modo di metter le mani nel bilancio dello Stato. “Il bilancio dello Stato è ampio, è lì che bisogna cercare” dice Domenico De Masi alla Repubblica del 16 marzo. Già sentita questa. Però i democristiani, prima della decadenza degli anni Novanta, che cercavano parecchio nelle pieghe del bilancio dello Stato, insieme hanno dotato grazie all’intervento pubblico, l’Italia di autonomia energetica, di un sistema autostradale all’altezze dell’Europa, di una siderurgia invidiabile, di una rete articolata del credito, di diverse aziende tecnologiche all’altezza del mercato globale. Insomma certamente hanno messo un po’ troppo le mani nel bilancio dello Stato ma non solo per finanziare una decrescita felice.