Il Pdl deve riprendersi il profilo liberale con una battaglia su tasse e spesa pubblica

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Il Pdl deve riprendersi il profilo liberale con una battaglia su tasse e spesa pubblica

21 Marzo 2012

La notizia è della settimana scorsa, ed è rimasta confinata in pochi articoli di giornale, senza diventare oggetto di iniziativa politica. A gennaio il debito pubblico italiano è cresciuto di 37,9 miliardi di euro e lo stock è arrivato a 1.935,8 miliardi. Con esso è cresciuta anche la spesa pubblica, la cui avanzata sembra inarrestabile: secondo una recente ricerca della Cgia di Mestre essa è più che raddoppiata in termini reali negli ultimi trent’anni, anche se la progressione nei tre decenni è in calo: si passa dal +51,5% del periodo 1901-1991 al +16% dell’ultimo decennio. Con una analoga progressione è aumentata la pressione fiscale, cresciuta di 5 punti dal 2001 al 2011 e in crescita ulteriore a causa dell’introduzione e dell’inasprimento delle imposte patrimoniali sugli immobili.

Parallelamente il Pil è in costante discesa da tre trimestri, le previsioni per il 2012 sono concordemente negative e nell’ultimo decennio è cresciuto appena del 3,8%, contro il 22% della Spagna, il 18% del Regno Unito e il 9% della Germania.

Se questi sono i fondamentali del quadro macroeconomico, è evidente che la caduta dello spread – se non si vuole far risalire la sua crescita a poco credibili ipotesi di complotto internazionale – è legata alle aspettative positive che alcune riforme messe in cantiere dal governo Monti hanno prodotto (insieme alla soluzione trovata per la crisi greca). In altre parole, l’Italia sconta sui mercati l’effetto benefico che potrebbero avere sulla propria competitività le liberalizzazioni, le semplificazioni e la riforma del mercato del lavoro. Inoltre, è opinione diffusa che l’attuale esecutivo abbia sbloccato la paralisi decisionale in cui era finito il governo Berlusconi. La riforma delle pensioni, con la fine delle pensioni di anzianità ottenuta in poche settimane dopo decenni di inutili discussioni, ha fatto ritenere a tutti gli osservatori che il governo Monti avesse in mano la chiave per prendere quelle decisioni difficili che in Italia nessun governo aveva mai preso.

In questa situazione cosa dovrebbe fare un partito riformatore di centrodestra? Probabilmente tentare di iscrivere nell’agenda politica alcune priorità che sembrano allontanarsi: l’abbattimento di una quota rilevante dello stock di debito pubblico attraverso la cessione degli immobili di Stato e delle aziende pubbliche di servizio locale (spesso monopoliste e luogo di diffusa corruzione), la riduzione strutturale della spesa pubblica attraverso una profonda spending review che preveda una secca riduzione dei dipendenti pubblici (la cessione al mercato delle società di servizio locale darebbe un forte contributo) e che porterebbe anche ad una riduzione delle spese di acquisto di beni e servizi in ambito locale, e la revisione del nostro modello di protezione universalistica in campo sanitario, la riduzione del costo del lavoro attraverso la revisione prima e l’abrogazione poi dell’Irap (cosa che renderebbe più accettabile l’aumento dei contributi destinati agli ammortizzatori sociali). E, infine, a corollario di un programma economico di effettiva liberalizzazione, la riduzione secca del prelievo fiscale sul lavoro e sulle imprese.

Dal Pdl, purtroppo, non arriva niente di tutto questo. Anzi si finisce per accettare supinamente tesi ideologiche sull’evasione fiscale e si accetta che nelle priorità del governo entrino questioni come la Rai o la legge cosiddetta anticorruzione, che ha l’aria di una grida manzoniana più o meno repressiva.

Se la crisi del centrodestra è epocale, è anche perché in questi vent’anni il centrodestra ha abbandonato il suo profilo liberale e ne ha assunto uno corporativo e conservatore del sistema. Ed è prevalentemente per questo che ha dimezzato i suoi consensi.