Il Perù è solo l’ultimo dei Paesi del Sud America a fare i conti con gli Indios
23 Giugno 2009
Dopo oltre due mesi di proteste, scontri e morti fra poliziotti ed indios, si è chiusa per il momento una delle pagine più difficili della gestione presidenziale di Alan Garcia in Perù. Ma soprattutto si è definitivamente spalancata anche a Lima, dopo Brasile, Bolivia ed Ecuador, l’annosa questione dei diritti violati degli indios in Amazzonia. La protesta è partita in sordina il 6 aprile nelle regioni settentrionali di Loreto, Amazonas, Ucayali, Cuzco ed è giunta fino alla capitale, coinvolgendo il primo ministro Yehude Simon e la ministra degli Interni Mercedes Cabanillas in un’indagine chiesta dal Congresso sulla repressione operata contro gli indios.
Alla fine la paura di un capovolgimento politico, più che la mediazione della Chiesa Cattolica e le pressioni delle Ong, ha favorito il ritiro da parte del Congresso (82 voti a favore e 12 astenuti) dei decreti legislativi 1064 e 1090 che permettevano alle multinazionali di poter iniziare i lavori di perforazione nelle terre dei nativos, al governo di espropriare le terre per motivi di utilità nazionale, favorendo la sostanziale privatizzazione delle terre e l’esclusivo sfruttamento delle risorse del suolo e sottosuolo da parte della Petroperù e di altre imprese statali in coordinazione con multinazionali estere di petrolifere.
In tutti questi giorni il filo rosso è corso su due città e due uomini. A Lima, dove il ministro Simon ha prima coordinato la polizia – sperando di spegnere la ribellione in pochi giorni – ha poi tuonato contro i rappresentanti delle Ong e delle associazioni di indigeni e contadini, accusando i loro leader di essere spalleggiati sia dalla vicina Bolivia che dai movimenti nuovamente insorgenti di Sendero Luminoso.
Alla fine, Simon è rimasto isolato nel suo stesso partito, con il probabile tramonto di una candidatura presidenziale per il 2010. A Bagua, capoluogo dell’omonima provincia nel nord-ovest del paese nelle Ande, dove si sono concentrati più di 10mila indios capeggiati da Alberto Pizango, leader dell’Associazione Interetnica di Sviluppo della Selva Peruviana: prima simbolo del riscatto indio, poi ricercato eccellente (si è rifugiato per giorni nell’Ambasciata del Nicaragua), e infine personaggio destinato all’espulsione che però viene guardato con interesse dai rivali di Garcia. In mezzo è scorso il sangue di 24 agenti e 11 indios uccisi, centinaia di feriti da ambedue le parti, perfino dispersi fra i nativi, mezzi di trasporto e piattaforme delle aziende danneggiate, aeroporti e strade bloccate ed ora una pioggia di accuse incrociate.
Alan Garcia, che ha ottenuto dal Congresso che la sospensione dei decreti sia “il simbolo di una pacificazione nazionale”, ora dovrà fare i conti con le pressioni degli indios che vogliono garanzie certe sulla terra, e con le multinazionali e le aziende statali collegate che gli presenteranno un conto salato, per giunta in piena recessione e con Obama alla finestra che – seguendo la linea di Bush – non intenderà di certo rinunciare alle risultanze del Trattato di Libero Commercio sottoscritto con il paese.