Il potere “divino” di Nazarbayev alla prova delle urne
02 Aprile 2011
Domenica 3 aprile in Kazakhstan si vota per eleggere il nuovo presidente. Ed è stato proprio il presidente in carica, Nursultan Nazarbayev, a decidere che queste elezioni si svolgessero due anni in anticipo rispetto alla scadenza del suo mandato.
Le ragioni di una tale decisione non sono del tutto chiare: il clima di sostanziale stabilità politico-sociale di cui gode il paese, l’assenza di movimenti di opposizione capaci di imporsi all’attenzione generale, il ruolo di vero pivot regionale giocato dal Kazakhstan sullo spazio centroasiatico, il consenso aggregato intorno alla figura di Nazarbayev avrebbero lasciato supporre un fluire del mandato regolare e senza novità nel percorso.
È accaduto, però, che, a dicembre del 2010, un significativo movimento popolare, con più di 5 milioni di firme, abbia avanzato la proposta di un referendum per la riconferma di Nazarbayev fino al 2020 nella carica che ricopre dal 1991, anno dell’indipendenza dall’Unione Sovietica.
Cosa ha animato un simile desiderio scaturito dal basso? Si è trattato di uno strascico di popolarità dovuto alla storica presidenza dell’OSCE nel 2010? È stata l’eco del successo del vertice di Astana a stimolare una tale forza, aggregatrice di un consenso riconoscente? Quel che sembra chiaro è che dal momento in cui è stata avanzata la proposta di quel referendum si è innescato un processo articolato e del tutto originale.
Il 31 gennaio 2011, la corte costituzionale kazaka decreta incostituzionale il quesito referendario. Quattro giorni dopo, il presidente annuncia la fine anticipata del proprio mandato e stabilisce il 3 aprile come data per le nuove elezioni. A quel punto, si avviano le procedure per la presentazione delle candidature. Tra chi non riesce a superare la prova obbligatoria di lingua kazaka e chi si è ritirato strada facendo, all’avvio della campagna elettorale si ritrovano tre candidati espressi da partiti politici e un ambientalista.
Il primo candidato è il presidente in carica, Nursultan Nazarbayev, leader del partito Nur Otan; il secondo è Zhambul Akhmetbekov, esponente del partito comunista; il terzo Gani Kasimov, senatore e leader del partito dei patrioti; il quarto è Mels Eleusizov, presidente di un movimento ambientalista.
Esaminiamoli. Nazarbayev ha subito annunciato che non avrebbe fatto campagna elettorale, rimandando gli elettori ai contenuti del suo discorso alla nazione del 28 gennaio. Akhmetbekov appartiene a un partito filogovernativo. Kasimov ha dichiarato che tra i propri modelli di riferimento Nazarbayev occupa un posto di privilegio. Eleusizov ha sostenuto di voler partecipare alle elezioni solo per sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche ambientaliste.
Se queste sono le premesse (elezioni anticipate di due anni senza un reale motivo apparente; candidature poco rappresentative tra le quali quella del presidente in carica spicca per non aver neanche bisogno di essere alimentata in una campagna viva e partecipata), allora a cosa sono funzionali queste elezioni?
D’altro canto, anche l’ODHIR (Office for Democratic Institutions and Human Rights, organismo che si occupa in ambito OSCE di monitorare i procedimenti elettorali e che, finora, non ha mai decretato un’elezione kazaka free and fair, fatto piuttosto curioso per un paese che di quell’OSCE è stato un presidente brillante e proattivo) ha riferito in un report del 21 marzo che, benché vi siano stati appelli al voto, manifesti, concerti ed eventi, la visibilità degli altri 3 candidati impallidisce dinanzi a quella di Nazarbayev. Senza contare che la prova di lingua kazaka costituisce un forte sbarramento, se non un discrimine, per chi voglia candidarsi un paese nel quale l’uso del russo è ancora estremamente diffuso.
Forse una possibile risposta potrebbe essere che si tratti in realtà non di elezioni con valore legittimante o confirmatorio per il presidente in carica che le ha decise, ma piuttosto di prove tecniche per chi vorrebbe provare a succedergli.
Il settantenne Nazarbayev, infatti, non ha bisogno di appigli legali che lo trattengano al potere fino al 2020, come avrebbe voluto il referendum bocciato dalla corte costituzionale, o di rinnovi di mandato che gli allunghino la vita politica, giacché con la legge che lo ha decretato “leader della nazione”, approvata dal parlamento a maggio 2010, egli si è posto al di sopra delle cariche dello stato e al di fuori di qualunque disturbo alla propria influenza sulle vicende del paese.
Tale legge stabilisce, infatti, che dopo un suo ritiro (volontario) dalla vita politica: avrà il diritto di intervenire su questioni di politica interna, estera e di sicurezza; sarà membro del consiglio costituzionale e del consiglio di sicurezza; godrà di un’immunità grazie alla quale quanto commesso da lui o dai suoi familiari nel periodo dei mandati presidenziali non sarà perseguibile né sarà possibile rivalersi sulle sue proprietà; inoltre, qualunque offesa recata alla sua persona sarà punibile fino a un anno di reclusione.
Se le ragioni profonde del confronto elettorale restano ignote, l’esito si può già dare per certo. Come sembra altrettanto certo che la sorte di Nazarbayev sia quella di un vero leader della nazione che, pur non avendo nessuna intenzione di abbandonare il comando, comincia a guardare dall’alto chi vorrà competere per la successione. Chi siano i possibili veri candidati non si sa, forse un familiare, forse il sindaco di Astana o di Almaty oppure l’attuale primo ministro, Karim Masimov. È intuibile, comunque, che l’eredità sarà senz’altro gravosa e difficile da agguantare.