Il Programma Erasmus è solo un esempio di quello che potrebbe essere l’Europa
22 Luglio 2012
Si celebra quest’anno il 25° anniversario del programma Erasmus, uno dei più grandi successi dell’Unione Europea. Lanciato nel 1987, quando presidente della Commissione UE era Jacques Delors, il programma si proponeva di facilitare la mobilità degli studenti universitari entro i confini dell’Unione, estendendola in seguito ai Paesi associati.
L’obiettivo è stato pienamente conseguito, tant’è vero che si sta raggiungendo la ragguardevole cifra di tre milioni di giovani in mobilità da una nazione all’altra in 25 anni. In testa gli spagnoli, seguiti da francesi, tedeschi e italiani. Senza alcun dubbio un risultato notevole, soprattutto considerando le modeste risorse messe a disposizione dagli organismi governativi europei.
“Andare in Erasmus” è ormai diventata un’espressione comune nei nostri atenei, con le famiglie disposte a compiere sacrifici economici pur di consentire ai rampolli di fare un’esperienza di studio ufficiale all’estero. Sacrifici, già. E per motivi molto semplici. Le borse finanziate dalla UE coprono meno della metà delle spese che i giovani devono sostenere nel Paese ospitante. Intervengono spesso gli atenei integrando la somma, ma resto il fatto che parte rilevante della spesa è a carico dei genitori.
Questo non ha tuttavia impedito la crescita costante dei flussi anno dopo anno. Si è partiti da poco più di 3000 studenti nel 1987 per giungere agli oltre 200.000 degli ultimi anni accademici. Il progressivo allargamento dell’Unione ha inoltre consentito – dopo il crollo del muro di Berlino – a tantissimi cittadini dei Paesi dell’ex blocco sovietico di studiare nell’Europa occidentale.
Per le sue caratteristiche di apertura e cosmopolitismo il programma è molto ammirato nel resto del mondo. A chi scrive è capitato di incontrare una studentessa australiana che ha deciso di dedicare la tesi proprio all’Erasmus, ascoltandone le lamentele perché nel suo Paese non esiste alcunché di simile. Ma anche negli Stati Uniti questo fenomeno è diventato oggetto di studio, né vale rammentare agli americani che in fondo loro non ne hanno bisogno vivendo in una federazione di Stati.
Uno dei maggiori vantaggi è infatti la possibilità di apprendere in loco una lingua straniera. Si sa che in molti casi la conoscenza è destinata a restare su livelli tutt’altro che ottimali, ma è pur sempre meglio di niente. Fondamentale anche il contatto con docenti che utilizzano metodi d’insegnamento diversi, e con realtà sociali talora assai difformi da quella del Paese d’origine.
L’Erasmus è uno dei rari casi in cui la UE ha pensato in termini non solo economici, finanziari e commerciali. I padri fondatori – con alcune eccezioni come l’italiano Altiero Spinelli – intendevano assicurare la prosperità e la fine dei conflitti nazionali mediante il libero scambio delle merci e dei manufatti. Piuttosto rivoluzionaria, quindi, l’idea che tale scambio potesse includere lo studio e la conoscenza. Eppure, con un certo ritardo rispetto alle merci, l’idea si affermò e divenne un tratto caratteristico dell’Europa ammirato – come prima si diceva – anche nel resto del mondo. In seguito la mobilità fu estesa ai docenti, che possono andare a insegnare in altri atenei dell’Unione, e al personale amministrativo con la possibilità di svolgere un periodo di tirocinio entro i confini della UE.
Vedendo in quali condizioni si trova ora l’Unione Europea, con molte nazioni vicine al default e la guerriglia urbana nelle strade di Madrid, vien fatto di chiedersi che fine farà un’esperienza così fruttuosa. Capisco bene che il destino del programma Erasmus non è certo il problema maggiore sul tappeto. I cosiddetti “mercati” hanno ben altri obiettivi da colpire. Mi sia però consentito notare, da docente universitario, che proprio nell’ambito dello studio e del sapere si è maggiormente intravista l’opportunità di superare gli egoismi nazionali, e di dar vita a una cultura comune per quanto rispettosa delle legittime differenze.
La consapevolezza che tutto ciò possa presto scomparire dovrebbe essere dolorosa per tutti, e non solo per chi svolge professioni di tipo intellettuale. Anche di cultura vive l’Unione. Il fatto che tanti – troppi – governanti europei non l’abbiano capito è una delle ragioni che spiegano la crisi che stiamo vivendo.