Il rapporto tra scienza e religione di fronte alle sfide della postmodernità
25 Settembre 2015
Si è spento nella notte Giorgio Israel, epistemologo e storico della scienza, uomo schietto e dotato di grande senso critico e altrettanta cultura. Era nato nel 1945. Israel ha insegnato per lunghi anni Storia delle matematiche all’università La Sapienza di Roma. Era membro dell’Académie Internationale d’Histoire des Sciences e nei suoi scritti ha approfondito il ruolo giocato dalla scienza nella storia europea e occidentale. Israel era anche un amico dell’Occidentale (qui tanti dei suoi articoli sulla scuola e la cultura in Italia) e vogliamo ricordarlo riproponendo ai nostri lettori il suo intervento agli "Incontri di Norcia" di Fondazione Magna Carta nel 2007. Tra religione, scienza e prova della ragione.
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Il tema del rapporto tra scienza e religione è sempre più materia di uno scontro non soltanto culturale ma addirittura politico che si manifesta in termini particolarmente accesi. Questo scontro rappresenta uno sviluppo particolarmente critico, in quanto il tema in oggetto coinvolge questioni molto complesse e delicate di storia della scienza e del pensiero scientifico, filosofico e teologico, che vengono spesso trascinate nell’arena in modo rozzo e strumentale. Appare quindi importante respingere le tentazioni di scendere a questo livello di diatriba e ripristinare un approccio rigoroso, oggettivo, documentato ed equilibrato alla questione del rapporto tra scienza e religione e delle sfide che esso pone nell’attuale società tecnoscientifica. È opportuno stendere un breve inventario delle strumentalizzazioni e delle deformazioni correnti nell’attuale dibattito, perché ciò consente di comprendere meglio in che modo esso possa riportato entro una cornice di razionalità.
I punti di vista che affermano che tra scienza e religione esiste una contrapposizione irriducibile, presentano una contraddizione epistemologica – che spesso si manifesta nelle forme di un contrasto tra persone che tuttavia condividono la medesima ostilità nei confronti della religione e sono convinte della loro inconciliabilità – e ricorrono a una serie di falsificazioni storiografiche. La contraddizione si presenta nella forma seguente. Da un lato si afferma che la religione è soltanto superstizione e dogmatismo, espressione del fondo irrazionale dell’animo umano, mentre la scienza è manifestazione piena della razionalità ed è l’unica via per l’acquisizione di verità oggettive. Si è arrivati al punto di affermare che la scienza è la “religione della verità” e che «all’assolutismo politico-teologico, impantanato nelle sabbie mobili della rivelazione e della fede, va contrapposto non il relativismo filosofico ma l’assolutismo matematico e scientifico, fondato sulle rocce della dimostrazione e della sperimentazione» (Odifreddi). Dall’altro lato, invece, si condanna l’aspirazione religiosa alla verità come espressione di oscurantismo, in quanto l’idea stessa di “verità oggettiva” sarebbe assurda e improponibile. Dato che le opinioni circa i fatti reali sono necessariamente molteplici e poiché non esisterebbe alcun modo di decidere definitivamente tra di esse, se ne deduce che l’essenza della scienza è il relativismo, ovvero l’acquisizione di asserti provvisori e tutt’al più correggibili, ma che spesso debbono essere radicalmente abbandonati per altri asserti. Anzi, la scienza sarebbe “la” forma di conoscenza razionale, laica e antidogmatica proprio perché, per sua natura, è relativista. In tal senso essa si contrappone inevitabilmente al dogmatismo religioso. Questa posizione – che è sostenuta da una platea molto più larga della precedente – è difesa in Italia da persone come Giulio Giorello ed Enrico Bellone; anche se quest’ultimo, fino a pochi anni fa, era fautore acceso della linea precedente e aspro critico della microsociologia della scienza, che è il massimo baluardo della posizione relativista (valga per tutti citare David Bloor).
La situazione è curiosa. Il contrasto tra i due punti di vista non potrebbe essere più evidente e, come mostra la prima citazione, i fautori della scienza come “religione della verità” (fautori del più rigido oggettivismo) rigettano il relativismo. I secondi articolano invece in modo diversificato la loro concezione relativista: nei casi più “moderati” sostengono che la scienza può proporre soltanto asserti in termini di probabilità (Giorello), nei casi più estremi adottano un modello naturalistico (biologico) dello sviluppo culturale, per cui anche le teorie scientifiche sono prodotto di strutture biologiche transeunti, il che pone il problema di come dare qualche carattere di persistenza e adattabilità a una cultura soggetta alle mutazioni ambientali, il quale «non è detto che abbia soluzione» (Bellone). È evidente che quest’ultima posizione estrema ricade sotto la vecchia critica di Merton al «caratteristico circolo vizioso» del relativismo radicale «nel quale le proposizioni stesse che asseriscono questo relativismo sono ipso facto invalide» e si colloca agli antipodi del classico oggettivismo scientista che attribuisce alla scienza un ruolo di acquisizione di verità fondate sulla roccia. Ma anche le posizioni più moderate sono in piena contraddizione con tale oggettivismo, come è reso evidente dai loro riferimenti teorici (per esempio, le posizioni del probabilismo soggettivista di Bruno de Finetti). Insomma, siamo di fronte a un panorama talmente variegato e contraddittorio che ci si chiede che cosa vi sia di comune in posizioni del genere. Eppure, le contraddizioni che le dividono – in modo talora insolubile – non emergono mai, anzi vengono tenute accuratamente nascoste in nome di un comune e supremo obbiettivo: combattere il fanatismo e la superstizione delle religioni, la loro intrusione nella sfera politica, in nome della difesa della laicità minacciata. Non sembra che si possa dare un esempio più chiaro del carattere strumentale e “di bandiera” con cui viene messa assieme un’accozzaglia di posizioni in contrasto tra di loro, per scopi di mera battaglia politico-culturale – qualcosa che fa pensare a certi schieramenti politici costruiti per puro scopo di potere e di contrasto del “nemico” – e di come, per tale via, anche il dibattito culturale venga degradato a livelli infimi.
Accenniamo ora ad alcune delle falsificazioni storiche con cui si tenta di sostenere questa battaglia culturale, e che vengono proposte a qualsiasi prezzo, anche a quello di ridurre la storia della scienza a una parodia. La difficoltà più elementare di fronte a cui si trovano i sostenitori della tesi del contrasto irriducibile tra scienza e religione è di spiegare come mai tutti i fondatori della scienza moderna fossero religiosi (anzi dei “teologi laici”, per dirla con Amos Funkenstein). Le risposte sono variegate: (a) non si poteva non essere religiosi, a quei tempi; (b) si trattava di forme di superstizione che rappresentavano soltanto incrostazioni residue attorno all’emergere di un nuovo spirito razionale; (c) l’intolleranza delle religioni costringeva a una religiosità di facciata cui non corrispondeva alcuna convinzione reale, insomma a una sorta di marranismo generalizzato. Le opere teologiche di Newton vengono liquidate come espressione di rimbecillimento senile del grande scienziato (sebbene siano opere per lo più giovanili o del periodo maturo). L’opera filosofica di Cartesio viene casomai citata come argomento per “spiegare” la debolezza delle sue spiegazioni fisiche. Viene inoltre avanzata un’altra spiegazione più sottile che rappresenta la più grossolana falsificazione corrente. Si sostiene che il Dio dei protagonisti della rivoluzione scientifica era ormai divenuto un Dio impersonale – il che è grossolanamente falso, per esempio nel caso di Newton – anzi un Dio coincidente con la natura, secondo la formula spinoziana “Deus sive Natura”, perciò la residua religiosità di quei protagonisti sarebbe soltanto una forma di panteismo; e il panteismo – altro passaggio cruciale in questa ricostruzione di comodo – non è altro che ateismo mascherato.
È facile trovare in ogni angolo le tracce di questa vulgata: si pensi, ad esempio, al libro-dibattito tra il neuroscienziato Jean-Pierre Changeux e il filosofo Paul Ricoeur. I cardini di questa ricostruzione sono: il pensiero di Spinoza è la rappresentazione emblematica del metodo scientifico ed esprime la posizione più diffusa tra gli scienziati del Seicento e primo Settecento (il che è a dir poco discutibile); questo pensiero è ateo e materialista (invano Ricoeur tenta di confutare quest’affermazione, chiedendo che Spinoza venga letto per intero); pertanto, la scienza per sua essenza è atea e materialista.
In linea generale, si tende a soffocare l’interesse per le analisi – che pure avevano conosciuto significativi sviluppi negli ultimi decenni del secolo scorso – volte a ricostruire il legame profondo ed essenziale tra i concetti fondanti della scienza moderna – in particolare quelli di spazio e di tempo – e le “teologie laiche” dei grandi protagonisti della rivoluzione scientifica. Un altro tema di grande interesse e di enorme complessità è quello dell’ispirazione teologica e giuridica che è alla base del concetto di “legge scientifica”. Esso permette di comprendere il ruolo cruciale che ha avuto il pensiero religioso nella fondazione della scienza moderna. Ma tutte queste tematiche vengono sempre più sistematicamente trascurate e denigrate, e persino alcuni di coloro che le hanno sviluppate in tempi recenti sembrano abbandonare, come intimiditi, i loro precedenti interessi e adeguarsi alle tendenze polemiche prevalenti.
Accanto a queste tematiche più “raffinate”, occorre menzionare la consueta polemica contro l’intolleranza delle religioni, la rievocazione del caso Galileo, del rogo di Giordano Bruno, delle persecuzioni che colpirono Spinoza, Cartesio, Copernico. Il ricordo di questi eventi persecutori serve a rinvigorire la tesi secondo cui la religione è, per sua natura, intollerante, fanatica e ostile al libero pensiero razionale che è l’essenza del metodo scientifico.
Occorre sottolineare un aspetto curioso in questo panorama, e cioè l’“esenzione” di cui gode la religione musulmana da tutte le critiche sopra ricordate. La religione musulmana è certamente molto più dogmatica delle religioni cristiane e dell’ebraismo, se non altro perché concepisce il Corano come un testo disceso direttamente dal cielo e il cui testo va preso nella sua assoluta letteralità, mentre le religioni cristiane e l’ebraismo – sia pure con accenti diversi – pongono al centro del pensiero teologico l’interpretazione dei testi sacri, in quanto scritti da uomini: testi rivelati, ma in cui la rivelazione è mediata da menti umane. Eppure, quasi tutti i libri e gli articoli che hanno come bersaglio la religione e mirano a contrapporla al libero e razionale pensiero scientifico, puntano invariabilmente il dito contro l’ebraismo e il cristianesimo, mentre manifestano un’indulgenza, o quantomeno un silenzio, sconcertanti nei confronti della religione musulmana. Non è sempre così – tale è il caso del recente libro di Richard Dawkins – ma il panorama della letteratura europea in materia, e segnatamente di quella italiana, è dominato da questa singolare unilateralità. Del resto, chi conosca le tendenze della storiografia della scienza contemporanea vi trova un evidente riflesso di questo atteggiamento. Da decenni va avanti una sistematica opera di rivalutazione del contributo della civiltà islamica alla fondazione della scienza europea, la quale ha un indiscutibile fondamento, ma che sta ormai da parecchi anni, degenerando in una vera e propria opera di propaganda tesa a dimostrare che l’islam ha creato praticamente tutta la scienza europea. È facile constatare come questa campagna propagandistica stia producendo i suoi effetti, e si stia trasferendo al livello dell’immagine pubblica della scienza. I nostri “intellettuali scientifici” appaiono quanto meno proni di fronte ad essa, e spesso se ne fanno anche strumento, per esempio quando avanzano tesi deliranti, come quella secondo cui l’illuminismo o il libero dibattito delle opinioni sarebbe nato nell’islam e non in occidente.
Veniamo ora a un punto di fondamentale importanza, e cioè al modo con cui spesso si risponde a questa campagna, opponendo ad essa una campagna simmetrica, anch’essa di tipo militante, che fa ulteriormente degenerare il dibattito, e oltretutto propone delle tesi che, per il loro semplicismo estremismo, presentano delle debolezze tali da alimentare proprio quelle posizioni che vorrebbero confutare. Facciamo anche qui un breve inventario di queste risposte sbagliate.
(1) Si nega, contro ogni evidenza che sia esistito un conflitto tra le nuove correnti della scienza del Cinquecento e del Seicento e le autorità religiose. Invece di ammettere che la rivoluzione scientifica è avvenuta in un periodo di intolleranza che ha visto perseguitare i maggiori scienziati e filosofi in tutti i campi (Bruno, Galileo e Cartesio in campo cattolico, Copernico in campo protestante, Spinoza in campo ebraico), e sottolineare piuttosto che questo non implica affatto una contraddizione di principio tra scienza e religione, si tende a proporre ricostruzioni storiografiche di comodo, abborracciate, superficiali, in spregio all’evidenza. Si tenta di screditare Giordano Bruno come un mago (il che egli certamente si riteneva ed era ritenuto, come gran parte dei mistici rinascimentali!) e un ciarlatano, ignorando valutazioni equilibrate e approfondite del suo pensiero. Il carattere irragionevole di tali elucubrazioni è evidente: che cosa si potrebbe mai dedurre di sensato dalla dimostrazione che il pensiero di Bruno era ciarlatanesco, forse giustificare la sua condanna al rogo? Si tentano ricostruzioni artificiose e semplicistiche del caso Galileo in qualche colonna di giornale, ignorando la letteratura esistente e, oltretutto, il fatto che fino a che gli archivi non saranno completamente disponibili nessuna valutazione definitiva sarà possibile, se mai lo sarà.
(2) Che il razionalismo caratteristico della filosofia tomista (e, aggiungo, di quella di Maimonide) sia stato un fattore fondamentale che ha favorito lo sviluppo dello spirito scientifico, è indubbio. Si potrebbe sottolineare che esisteva una posizione analoga in campo musulmano, quella di Averroé, il che spiega perché le tre religioni abbiano avuto, in periodo medioevale, un ruolo parimenti cruciale nell’affermazione di una visione razionalista che non poteva non favorire lo sviluppo della scienza moderna. Si potrebbe aggiungere che proprio su questo punto si è prodotto il divorzio tra l’islam e la modernità: ovvero quando la condanna di Averroé ha schierato l’islam sulla linea della negazione della possibilità di una conoscenza razionale della natura, scegliendo la tesi secondo cui la natura è totalmente soggetta alle decisioni contingenti di Dio e quindi non obbedisce ad alcuna legge scientifica oggettiva. Si può ancora aggiungere che le discussioni teologiche medioevali, persino (e talora soprattutto) quelle tendenti a confutare le “eresie” hanno avuto un ruolo importante nella creazione dei concetti fondanti della scienza moderna. Si pensi alla confutazione e di ipotesi controfattuali, come quella del vuoto o del moto rettilineo uniforme, la cui analisi ha aperto la strada al principio d’inerzia in meccanica. Ciò detto, è una totale assurdità sostenere che esista un legame di continuità, senza fratture, tra la teologia medioevale e la scienza moderna. Non bisogna dimenticare che la scienza moderna è nata compiendo una demolizione sistematica della fisica aristotelica e, più in generale, rigettando tutti i principi della metafisica aristotelica a profitto di un recupero del platonismo, in versione neoplatonistica, e persino del pitagorismo. Una lettura attenta e non partigiana non può mettere da parte il fatto che, se la teologia medioevale cattolica ed ebraica ha avuto un ruolo importante nella formazione del razionalismo moderno, questo ha usato gli stessi strumenti per demolire nei contenuti le immagini metafisiche e fisiche legate all’aristotelismo dominante. Pertanto, chi tenta di accreditare l’idea che non è vero che la scienza moderna e il neoplatonismo siano indissolubilmente legati, compie una falsificazione strumentale.
(3) Appare quindi sconcertante che vi sia chi, credendo in tal modo di rendere un servizio al pensiero religioso, tenta di negare e denigrare il ruolo del pensiero rinascimentale, degradato a livello di manifestazioni magiche e ciarlatanesche. È ben vero che – come ha osservato Frances Yates – la scienza moderna si è affermata rompendo con l’idea dell’unitarietà del mondo e con la concezione rinascimentale delle connessioni astrali. Ma, così come è stata debitrice del razionalismo della teologia medioevale, la scienza moderna non sarebbe mai nata senza quella rottura cruciale operata dal pensiero rinascimentale, che in modo efficacissimo, Koyré ha definito come il passaggio “dal mondo chiuso all’universo infinito”. Due sono gli aspetti più originali della rivoluzione scientifica: la centralità del concetto di infinito, sia sul piano della realtà fisica che dell’analisi concettuale, e l’idea che il mondo è matematico, che comporta l’abbandono della visione pratica della matematica caratteristica dell’aristotelismo e di tutta la tradizione medioevale, e la ripresa di una visione platonistica che non resta al livello di enunciazione di principio ma si trasforma in un vero e programma di scoperta delle strutture matematiche della natura. In ciò la scienza è erede del Rinascimento, del suo neoplatonismo e pitagorismo, del misticismo che lo pervade fino a debordare in forme di pensiero magico, ma che è comunque profondamente religioso. La sfida più grande della scienza moderna è di concepire l’infinito non soltanto in termini fisici – rompendo la sfera chiusa del cosmo aristotelico e tolemaico – ma di riprendere il tema dell’infinito matematico, abbandonato dalle correnti dominanti del pensiero greco e di farne uno strumento per la rappresentazione del mondo fisico. Il Rinascimento convoglia vecchie e nuove correnti di pensiero in una sintesi al cui centro sta al pensiero religioso: il senso della sua visione è stato efficacemente riassunto dicendo che esso tende «a fare di Atene un suburbio di Gerusalemme». È il pensiero filosofico e scientifico greco che viene sussunto entro la visione trascendente della religiosità ebraico-cristiana: si pensi ai profondi interessi kabbalistici di Pico della Mirandola e di Marsilio Ficino. Per cui, di qui occorre partire per comprendere quella sintesi di ellenismo e di pensiero ebraico-cristiano che costituisce il nucleo della civiltà europea. Viceversa, chi tenta di salvare il rapporto tra scienza e religione depotenziando o svilendo il ruolo del pensiero rinascimentale e cercando di costruire l’immagine impossibile di una discendenza diretta e senza contrasti tra il razionalismo della teologia medioevale e la scienza moderna, rende un pessimo servizio al rigore storiografico e anche alla causa che vorrebbe difendere.
(4) Infine, tutte le critiche che possono essere mosse al pensiero illuministico non possono arrivare fino al punto di presentarlo come un movimento puramente e semplicemente negativo. Non è ammissibile contrapporre all’esaltazione acritica del razionalismo illuministico nelle sue versioni più violentemente antireligiose e materialiste, una denigrazione totale e la negazione assoluta di ogni sua funzione positiva nella storia del pensiero e anche nella vita sociale. Anche qui la realtà è fatta di chiaroscuri ed è inoltre sbagliato parlare di un pensiero illuministico come di una realtà unica e senza sfaccettature. Ma, soprattutto – e come si è visto prima nei punti precedenti – le relazioni storiche sono spesso complesse e contraddittorie. Come negare che l’illuminismo abbia avuto un ruolo positivo nella difesa dei diritti civili, proprio in quanto aveva ereditato un’idea della dignità della persona che tanto deve alla tradizione ebraico-cristiana? Eppure, neppure a questo ci si può arrestare. La pura e semplice riduzione di quel che di positivo e di liberatorio ha prodotto il pensiero illuministico a un’eredità del cristianesimo è una parodia propagandistica. Se il centro vitale della civiltà europea è stata la sintesi tra tradizione ellenica e latina e tradizione ebraico-cristiana, sarebbe assurdo negare il ruolo avuto dall’Illuminismo nel valorizzare la componente del razionalismo di derivazione greca.
Più in generale, una visione equilibrata del tema del rapporto tra scienza e religione dovrebbe tener conto del fatto che questo rapporto ha messo in moto una dialettica all’interno dello stesso pensiero teologico e ha influito sul suo stesso sviluppo, oltre che, ovviamente, sulla costituzione della scienza. Basti pensare alla celebre contesa tra newtoniani e leibniziani sul tema del ruolo di Dio nel sistema del mondo fisico.
Ma – si dirà – questi temi sono troppo difficili e le risposte complesse e articolate sono troppo sofisticate per un pubblico vasto che è attratto dalla superficie più polemica del rapporto tra scienza e religione.
Penso che simili obbiezioni siano del tutto sbagliate. In primo luogo, occorre tener presente che ci troviamo di fronte al dilagare di una saggistica che non si limita a una generica opposizione filosofica o morale alla dimensione religiosa (come era il caso del noto libro di Bertrand Russell), ma pretende di demolire le religioni entrando direttamente sul terreno della confutazione filologica e teologica e fornendo ricostruzioni storiografiche ad hoc del rapporto tra scienza e religione. A questo tipo di letteratura, per quanto volgare essa sia, occorre offrire un’alternativa rigorosa. Il problema non è certamente quello di una confutazione puntuale di tesi che spesso non meritano una considerazione specifica. Si tratta piuttosto di un dovere di fronte alla cultura, si tratta di difendere una visione dignitosa dei temi in oggetto. Questo non può essere fatto brandendo slogan o arroccandosi su posizioni difensive e di principio, bensì esibendo la capacità di offrire interpretazioni convincenti e articolate. Non dobbiamo dimenticare che – nonostante il disastro dei sistemi dell’istruzione in tutta Europa – siamo in un continente a vocazione filosofica, per dirla con Husserl. Nulla lo dimostra meglio della sorprendente constatazione che è possibile raccogliere alcune centinaia di persone anche in piccole città per un dibattito serale sul tema della “ragione”, ovvero attorno a un tema che appare astruso e poco attraente rispetto a un qualsiasi programma televisivo di intrattenimento, e che invece stimola tanta gente a incontrarsi per sentirne discutere. Ciò è dovuto sia al persistere di una propensione alla “mentalità filosofica”, ma anche al vivissimo sentimento di insoddisfazione per visioni relativistiche che non attribuiscono alcun senso all’esistenza e alle inquietudini che suscita una tecnoscienza che riduce le questioni morali a una questione di ottimizzazione dell’utilità.
È particolarmente sentita la domanda di che cosa si debba intendere per “ragione”, per “verità”, nonché la questione se sia possibile l’acquisizione di conoscenze “oggettive” e di quale sia il ruolo rispettivo della scienza e della religione in rapporto a queste domande. Il grande scalpore che è nato attorno al discorso di Benedetto XVI a Ratisbona – al di là delle ben note strumentali polemiche, che peraltro testimoniano come il problema irrisolto dell’islam sia precisamente quello di cui si parlava sopra e che si trascina da secoli, ovvero il problema del suo rapporto con la modernità – è dovuto proprio al fatto che esso ha sollevato un tema che agita le coscienze ed è alla base di un malessere diffuso. Possiamo accontentarci di un concetto di ragione “ristretta” alla sola ragione scientifica quale viene proposta dal positivismo e dal neopositivismo? È ammissibile che ogni aspetto della realtà possa essere “naturalizzato” e quindi tendenzialmente ricondotto a un problema di carattere fisico-matematico? Ed è quindi accettabile che i problemi della coscienza soggettiva, dell’etica, della morale possano essere ridotti a questioni risolvibili nei termini del razionalismo delle scienze esatte? In altri termini, possiamo accontentarci di una nozione di ragione quale quella che ci viene proposta dal riduzionismo scientista?
Sono domande che venivano poste in modo quasi identico alla vigilia della Seconda guerra mondiale da Edmund Husserl nel suo La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, quando considerava come una crisi delle scienze aver “decapitato” la ragione riducendola al modello positivistico delle scienze fisico-matematiche, ed escludendo dalla sfera della razionalità il problema del senso dell’esistenza. Husserl parlava proprio del problema di Dio come manifestazione suprema del problema del senso dell’esistenza, denunciava la sua esclusione da parte della ragione “ridotta” e richiamava alla necessità, per lo spirito europeo, di una riscossa della ragione capace di battere il naturalismo. Oggi, questo messaggio è stato ripreso in ambito direttamente religioso. È la religione che si è fatta promotrice di un discorso tendente a rivalutare il ruolo della ragione e della conoscenza di fronte a una tendenza del pensiero scientifico a mettere sempre più in discussione la possibilità che la ragione sia capace di acquisire conoscenze oggettive e ad accogliere, persino nel suo ambito, posizioni relativiste, pur se in contraddizione con la persistente e inevitabile tendenza a presentarsi come unica forma di acquisizione del vero. Il naturalismo danneggia la scienza stessa perché le fa carico di una missione impossibile: rappresentare tutti i temi della soggettività, dell’etica e della morale. L’inclusione di questi temi in una forma di razionalità che è rigorosamente plasmata sull’analisi dei fenomeni del mondo materiale, e quindi ancorata a una stretta oggettività, fanno esplodere dall’interno lo stesso progetto di conoscenza scientifica, introducendovi il germe del relativismo radicale. Pertanto il grande tema che deve essere sollevato oggi è quello di una scienza che deve sapersi restringere al dominio di fenomeni da cui ha preso le mosse e che deve sentirsi parte di una visione più ampia della ragione capace di confrontarsi con altre sfere oltre a quella della natura. Alla scienza che, viceversa, pretendere di includere ogni attività razionale potremmo opporre le parole scritte dal celebre matematico Louis Augustin Cauchy un secolo e mezzo fa: «Indubbiamente, nelle scienze cosiddette naturali, il solo metodo che possa essere impiegato con successo consiste nell’osservare i fatti e nel sottoporre quindi le osservazioni al calcolo. Ma sarebbe un grave errore pensare che la certezza non possa essere trovata altro che nelle dimostrazioni geometriche o nella testimonianza dei sensi; e nonostante nessuno fino ad oggi abbia tentato di dimostrare con l’analisi l’esistenza di Augusto o di Luigi XIV, ogni uomo sensato converrà che questa esistenza è per lui altrettanto certa del quadrato dell’ipotenusa o del teorema di MacLaurin. Dirò di più: la dimostrazione di quest’ultimo teorema è alla portata di poche menti, e gli stessi scienziati non son tutti d’accordo sulla generalità che occorre attribuirgli; al contrario tutti sanno molto bene da chi sia stata governata la Francia nel diciassettesimo secolo, e che non è possibile sollevare al riguardo alcuna contestazione ragionevole. Ciò che ho detto a proposito di un fatto storico si applica parimenti a una quantità di problemi, nel campo religioso, morale e politico. Occorre convincersi che esistono verità diverse dall’algebra, realtà diverse dagli oggetti sensibili. Coltiviamo con ardore le scienze matematiche, ma senza volerle ostentare al di là del loro dominio; e non illudiamoci che si possa affrontare la storia con delle formule, né sanzionare la morale con dei teoremi o del calcolo integrale».
Si potrebbe certamente dire che non c’è bisogno di chiamare “ragione” le forme di attività della mente che non si riducono all’esercizio del ragionamento logico o all’osservazione ordinata dei fenomeni, se non fosse che l’evidenza ci mostra che persino le forme più spinte del misticismo – penso, ad esempio, al misticismo della Kabbalah – non riescono a fare a meno dello strumento della ragione nel loro procedere, o quanto meno di accompagnarsi ad esso.
Proprio l’esigenza di rispondere al problema di che cosa sia “verità oggettiva” e di quali siano le forme di acquisizione della verità, se ve ne sono, di fronte all’avanzare di miscela di scientismo e relativismo che nega qualsiasi ruolo alla dimensione religiosa, richiede di elaborare delle risposte che tengano conto degli errori passati che hanno condotto alle impasses presenti, in modo da ripetere lo stesso percorso. È in relazione questa esigenza che vorrei sollevare una questione che ritengo cruciale e vorrei prendere qui a spunto il modo con cui l’ha affrontata Benedetto XVI, proprio in quanto il discorso di Ratisbona ha rappresentato uno stimolo cruciale alla riflessione contemporanea sul tema della ragione, e non caso ha stimolato tante discussioni e tanti incontri. Nutro perplessità circa il modo con cui il discorso sulla ragione è stato calato sul tema specifico del rapporto con la scienza nel discorso tenuto a Verona da Benedetto XVI. Qui egli ha osservato «in rapporto alla ragione che ha dato vita alle scienze moderne e alle relative tecnologie», che «una caratteristica fondamentale di queste ultime è l’impiego sistematico degli strumenti della matematica per poter operare con la natura e mettere al nostro servizio le sue immense energie. La matematica come tale è una creazione della nostra intelligenza: la corrispondenza tra le sue strutture e le strutture reali dell’universo – che è il presupposto di tutti i moderni sviluppi scientifici e tecnologici, già espressamente formulato da Galileo Galilei con la celebre affermazione che il libro della natura è scritto in linguaggio matematico – suscita la nostra ammirazione e pone una grande domanda. Implica infatti che l’universo stesso sia strutturato in maniera intelligente, in modo che esista una corrispondenza profonda tra la nostra ragione soggettiva e la ragione oggettivata nella natura».
Il rischio che qui si corre è di passare dalla condanna di Galileo a un’accettazione completa del suo punto di vista, con tutte le implicazioni problematiche che ciò comporta. Osserviamo, in primo luogo, che la metafisica (neoplatonistica) che sta alla base dell’affermazione di Galilei della perfetta corrispondenza tra natura e matematica – talora espressa nella formula “il mondo è matematico” – non può più essere considerata come il presupposto indiscutibile di tutti gli sviluppi della scienza e della tecnologia, tanto meno può essere considerata come evidente, come lo riteneva ai suoi tempi Galilei. Già mezzo secolo fa il fisico Eugene Wigner, in un celebre articolo dal titolo “L’irragionevole efficacia della matematica” sottolineava che i casi in cui è possibile enunciare leggi scientifiche espresse in termini matematici sono pochissimi e, in linea generale, la natura non si presenta in forme semplici cui corrispondono strutture matematiche semplici (come riteneva Galileo), bensì come un groviglio di inestricabile complessità. Di conseguenza, l’efficacia dello strumento matematico che, per Galileo era una conseguenza evidente e perfettamente razionale della natura matematica del mondo, diventava per Wigner un mistero, una cosa irragionevole, inesplicabile, quasi un fatto mistico, un miracolo che «non capiamo» e addirittura «non meritiamo». In fondo, Wigner descriveva anticipatamente le caratteristiche, oggi pienamente esplicate, della scienza contemporanea. L’uso della matematica è sempre più diffuso e pervasivo e porta taluno a ripetere meccanicamente che “il mondo è matematico”. Ma l’efficacia della matematica è relativa. Essa è sempre molto grande in fisica, assai meno in biologia o in economia, malgrado il processo di crescente matematizzazione di queste scienze. Comunque nessuno potrebbe sentirsi seriamente autorizzato a dire che il mondo del rapporti sociali o dei fenomeni biologici “è matematico”. L’efficacia della matematica è diventata sempre più una questione che si giustifica a posteriori con la sua utilità. In termini di verità la questione è sempre più nebulosa e il rapporto tra matematica e realtà appare sempre meno chiaro di quanto sembrava a Galileo. Si noti che questa situazione riflette in modo impressionante la dicotomia all’interno del pensiero scientista di cui parlavamo all’inizio, ovvero la contraddizione tra la difesa del ruolo conoscitivo della scienza e l’affermazione di una visione relativistica: la matematica ha sempre più una funzione di costruzione di modelli la cui “verità” è per lo più inverificabile e che si valutano soltanto sul piano dell’efficacia (magari all’interno di contesti limitati e specifici), ma nessuno si sente di dichiarare radicalmente che la matematica non abbia alcuna funzione conoscitiva e di aderire a una posizione di utilitarismo relativistico radicale. Limitiamoci a dire qui che il rapporto tra matematica e realtà richiede di essere ripensato a fondo, fuori dalle cornici della metafisica neoplatonistica che ispirava Galileo, ma senza vagheggiare velleitarie “rifondazioni” sulla base delle teologie medioevali.
Il quadro concettuale entro cui si è sviluppata l’epistemologia scientifica dei Galileo, dei Cartesio e dei Leibniz rischia di infilarci di nuovo delle strettoie che hanno condotto la scienza a proporsi come modello di razionalità inclusivo di ogni altra manifestazione mentale o spirituale. È ben vero che nessuno dei protagonisti della rivoluzione scientifica riteneva che la sfera naturale potesse essere inclusiva di ogni aspetto del reale. Non è lecito dire che Galileo, affermando che il mondo è scritto in lingua matematica, pensasse anche che ogni aspetto della realtà sia riducibile a rappresentazioni matematiche. Ma ha ben ragione Alain Finkielkraut quando osserva: «Nel paragrafo stesso in cui afferma solennemente che l’universo è scritto in lingua matematica, Galileo definisce l’Iliade e l’Orlando Furioso come “l’opera di fantasia di un uomo in cui la verità di quel che vi è scritto è la cosa meno importante”. E così potè nascere l’espressione che non avrebbe avuto alcun senso per gli umanisti: e tutto il resto è letteratura». Difatti, qui Galileo compie un passo nella direzione di annullare qualsiasi valore di conoscenza razionale a ciò che non si riduce alla razionalità di tipo fisico-matematico. Descartes sembrò più prudente quando nel Le Monde (1633) affermò che «il concorso ordinario di Dio nella conservazione del moto non impedisce che la Natura sia autonoma nella propria sfera, che è quella della materia o res extensa […] Le regole secondo cui avvengono questi cambiamenti le chiamo leggi di natura». Difatti, Descartes limitava il ruolo di Dio nella sfera naturale alla conservazione della quantità di moto e quindi Dio, lasciando alla natura la sua autonomia – condizione essenziale perché sia possibile costruire una scienza oggettiva, sulla scia di quella tradizione ebraico-cristiana da cui l’islam si era separato – conservava autonomia alla sfera spirituale. Ma Descartes fece un passo molto azzardato quando assimilò il mondo a una macchina, e i singoli esseri viventi a macchine, asserendo che tutto ciò che è naturale è artificiale, e viceversa. Un simile asserto metafisico – se mai ve ne furono – congiunto alla fragilità del dualismo cartesiano apriva la strada al materialismo radicale dei teorici settecenteschi dell’uomo-macchina. L’esito di tale visione – l’assoluta oggettività matematica del mondo, della sfera naturale ritenuta inclusiva di ogni sfera della realtà – non poteva non essere quello bene definito da Koyré come “l’esilio di Dio dal suo mondo”, ovvero una posizione ateistica.
Pertanto, se noi non vogliamo ripercorrere la via che ha condotto la scienza a una metafisica materialistica (e antireligiosa) radicale, non dobbiamo riproporne il peccato originale, consistente nel credere che esista una corrispondenza completa e perfetta tra ragione soggettiva e razionalità oggettivata che si manifesterebbe nella natura matematica del mondo. Perché di qui si perviene inevitabilmente a una visione “ridotta” della ragione.
D’altra parte, noi non abbiamo alcun bisogno di svolgere una critica del relativismo contrapponendo ad esso una forma di oggettivismo assoluto che è insostenibile da ogni punto di vista. Forse abbiamo troppo dimenticato il nucleo del pensiero di Nicola Cusano, che pure ha avuto un ruolo tanto cruciale nella formazione dell’epistemologia scientifica moderna. Si tratta dell’idea secondo cui la conoscenza empirica oggettiva è possibile soltanto se noi ne riconosciamo il carattere limitato e provvisorio, ovvero se riconosciamo l’impossibilità di acquisire la verità oggettiva nella sua pienezza assoluta. Difatti, finito e infinito sono irrimediabilmente separati e la mente umana finita non può acquisire l’assoluto senza partecipare di esso, e quindi diventare onniscienza divina, oppure degradare la verità a conoscenza parziale e imperfetta. Ma proprio l’esistenza di una verità oggettiva esterna e definitivamente irraggiungibile garantisce la possibilità di tendere verso di essa con un processo di approssimazione indefinito, che è appunto il processo della conoscenza. Ponendo alla base di tale processo un’idea caratteristica delle religioni monoteiste, e cioè l’idea di trascendenza (qui trascendenza della verità), Cusano ha fondato l’unica gnoseologia della conoscenza compatibile con l’idea di una progressiva acquisizione della verità e ci ha mostrato come questa idea sia intrinsecamente contraddittoria con l’oggettivismo e il relativismo radicali. D’altra parte, la storia della scienza si concilia perfettamente con tale visione. Essa mostra un processo che non produce mai verità assolute, definitive e non perfezionabili, che è dipendente da scelte soggettive, da visioni filosofiche e metafisiche e che è socialmente condizionato. Ma tale processo ha fornito comunque un accrescimento di conoscenza e non può in alcun modo essere ridotto a un gioco di contrapposizioni di programmi dettati esclusivamente dalle ideologie o dai conflitti di potere, secondo la vulgata della microsociologia postmoderna.
Lasciando al passato gli sterili tentativi di costruire una scienza oggettiva dell’essere, ovvero abbandonando ogni pretesa ontologica, e restando a distinzioni di natura semantica (nel senso molto efficacemente difeso da Ricoeur), dobbiamo partire dalla constatazione di essere immersi in un mondo (semanticamente) stratificato o, se si vuole, in una serie di “mondi”. Talché appare utile rappresentare questa situazione con l’immagine secondo cui noi%0D siamo con i piedi piantati in un mondo “materiale” che appare governato da regolarità più o meno forti, tali da permettere previsioni più o meno esatte, talora mediante “leggi”, talora mediante modelli, ricavati con gli strumenti delle scienze sperimentali e della matematica; e con la testa in un “mondo” in cui si esplica pienamente la libertà soggettiva e in cui ha un ruolo centrale la dimensione morale e religiosa. Non si tratta, ripeto, di una tesi ontologica, si tratta di una semplice constatazione di evidenza. Diceva il grande matematico Henri Poincaré che noi siamo ancor più certi delle “leggi di permanenza del pensiero” di quanto lo siamo dell’esistenza di “leggi naturali”. Non molto diversamente Bergson osservava che «l’esistenza di cui siamo più certi e che conosciamo meglio è incontestabilmente la nostra». E in tale esistenza, di cui siamo certi “perché percepiamo interiormente e profondamente noi stessi» molto più che gli oggetti esterni, si radicano le domande del “senso”, all’interno di essa scaturiscono i fondamenti morali della vita associata. Di qui il ruolo insopprimibile della spiritualità e della religiosità che può coesistere perfettamente con la dimensione della conoscenza del mondo “esterno”, che appartiene alle scienze naturali.
(Tratto da A Cesare e a Dio – Incontri di Norcia FMC 2007)