Il rapporto tra Stato e cultura può ispirarsi ai valori liberali ma a Rep. lo ignorano
06 Giugno 2010
Il breve commento di Michele Serra—v. la ‘Repubblica’ del 1° giugno—all’articolo di Pierluigi Battista, Se la cultura esiste solo grazie allo Stato—v. il ‘Corriere della Sera’ del 31 maggio—come spesso accade nelle polemiche giornalistiche, specialmente in Italia, chiama in causa visioni del mondo ed etiche politiche così distanti da indurci a chiedere se davvero, dopo la caduta del Muro di Berlino, si siano ormai radicati definitivamente nelle società occidentali, e nella nostra in particolare, i <valori della società aperta>.
Qualche settimana prima, sul quotidiano di Via Solferino, era intervenuto Piero Ostellino, per riaffermare, in polemica sia col Ministro Sandro Bondi che con la sinistra, il principio liberale che lo spettacolo deve essere lasciato al giudizio del mercato: <a provvedere alla produzione di film e rappresentazioni teatrali, ora sovvenzionati dallo Stato, e a decretarne successi o insuccessi, sarà il pubblico, pagando il biglietto d’ingresso>. <Gli intellettuali che parlano di «indipendenza della Cultura», di <libertà (culturale) violata>, (dal ministro)>, aveva fatto osservare l’autore dello Stato canaglia, <con che faccia parlano di ‘indipendenza della Cultura’ dopo averla prostituita a tutti i tic e alle mode purché illiberali? Gli uomini dello Spettacolo hanno il diritto di pensare, e di dire, ciò che credono. Ciò che non riesco a capire perché vivano felicemente in una ‘società aperta’, libera, di mercato, ma pretendano che, per sé, sia (anche) dirigista; rivendicano l’indipendenza della Cultura’, ma poi l’affidano alle sovvenzioni pubbliche (roba da Minculpop e da Zdanov). In nome di che? Del principio—non propriamente democratico—panem et circenses? Di una propria, antropologica, superiorità? Non facciamo ridere. Facciano bene il loro mestiere e andremo ai loro spettacoli ad applaudirli. Ma ci risparmino, da quel pulpito, le prediche sulla libertà e sulla democrazia>. Pierluigi Battista aveva ripreso il discorso intingendo la penna nell’inchiostro di un’acre ironia. <Se la cultura muore per i tagli dei fondi statali, vuol dire che la cultura, in Italia, non esiste senza la generosità dello Stato Unico Mecenate. Dipendiamo tutti dallo Stato, noi che lavoriamo nella cultura, nell’informazione, nella comunicazione. Senza erogazioni dello Stato, finisce la cultura. Senza elargizioni dello Stato finiscono i piccoli giornali. Senza le sovvenzioni dello Stato, boccheggia l’arte, il cinema, il teatro, la lirica, la ricerca. Questa è la lezione amarissima che la mannaia finanziaria produce come contraccolpo>.
Al rilievo irrisorio, però, seguiva una domanda pertinente che rinviava a una seria discussione sui ‘principi’, riproponendo in termini liberali una questione a tutt’oggi irrisolta: quella dei rapporti tra Stato e cultura. Se quest’ultima <è controllata, sovvenzionata, accudita, assistita dallo Stato>, come potrà dirsi libera? <Se istituti, fondazioni e accademia dicono che senza i soldi dello Stato devono chiudere, dov’è la misura della loro libertà? E se i giornali sopravvivono grazie ai contributi dello Stato, come fanno a provare la loro indipendenza? La vecchia massima di Friedrich von Hayek conserva intatto il suo valore: chi controlla tutti i mezzi di produzione è irresistibilmente indotto a controllarne i fini. Il mecenatismo non è mai gratuito. Non è un dono: è un’arma di ricatto. Se il mecenate chiude i rubinetti, la cultura rischia di morire assetata. Siamo sicuri che lo statalismo culturale sia poi così più attraente della vituperata logica del mercato?>.
Nell’esprimere il suo pieno dissenso dalle tesi di Battista (e del non citato Ostellino), definite una <diligente applicazione della teoria liberista all’universo mondo>, Serra ha scritto che <La cultura, così come l’istruzione e la salute, non è materia che può auto-regolarsi e automantenersi con le soli leggi di mercato. E’ un investimento sociale di medio, lungo e lunghissimo periodo (spesso un investimento apparentemente a fondo perduto) i cui frutti non sono facilmente monetizzabili. Se i teatri, i musei, le fondazioni, gli istituti di cultura (come gli ospedali e le scuole) dovessero valutare la propria utilità solo sulla base degli incassi, chiuderebbero una settimana dopo. Lo Stato – a nome della collettività – investe sulla cultura perché investe sulla formazione dei cittadini, cioè sul futuro>. Sono poche righe, come si vede, ma nelle quali si affastellano tanti materiali presentati a torto come connessi l’uno all’altro. In tal modo, l’Amaca di Serra finisce per ricordare il film di Lina Wertmuller, Scherzo del destino in agguato dietro l’angolo come un brigante da strada (1983), in cui i personaggi più diversi e incompatibili, dal ministro democristiano al capo della Digos, dal terrorista alla radical chic, si ritrovano prigionieri in una macchina sofisticata.
Può non essere inutile una disanima critica delle 620 battute di Michele Serra, purché priva di animosità polemica e aliena dalle liquidazioni superficiali. Il polemista di ‘Repubblica’, infatti, ha qualche buona freccia al suo arco quando richiama il principio che non tutto è mercato e che ci sono ‘beni culturali’ (in senso lato) che non possono venir ridotti alle sue misure. Se l’attivazione di una cattedra di etruscologia o anche il mantenimento di un museo o l’allestimento di una mostra sul popolo misterioso che, tra la Toscana e il Lazio, creò una delle più affascinanti civiltà del mondo antico, dovesse dipendere dalle quote pagate dagli studenti iscritti al corso universitario o dai biglietti dei visitatori di mostra e museo, con ogni probabilità i nostri posteri non saprebbero più nulla di aruspici e di lucumoni. Il problema è di quelli grossi come una montagna giacché, per dirla in poche parole, ciò che sta al di fuori del ‘mercato’ è quella dimensione della convivenza civile che un dimenticato, grande, filosofo, Eric Weil, chiamava il <sacro della comunità>. Averne smarrito il senso, da parte degli odierni liberali libertari, significa la regressione a un individualismo ‘utilitaristico’ (che guarda solo alle convenienze del singolo individuo, la cui unica legge è, appunto, l’utile immediato suggerito da desideri circoscritti e mutevoli) non meno ‘razionalistico’ di quello stigmatizzato da Friedrich Hayek e da Bruno Leoni ovvero la ricaduta (a destra) in un liberalismo che non vuole più avere nulla a che fare col mondo della tradizione che, per Edmund Burke, era il sostegno arazionale delle libertà (al plurale) inglesi. Detto altrimenti, i diritti soggettivi—intoccabili per i liberali di tutte le scuole—rinviano a una comunità politica in grado di proteggerli efficacemente, disponendo di risorse istituzionali adeguate, ma la comunità politica, a sua volta, è fatta di ‘cultura’, di memorie, di retaggi storici, di abiti spirituali che vanno protetti e valorizzati indipendentemente dalle ‘rese’e dalla possibilità di quantificarle.
A meno di non farsi arruolare nel piccolo contingente intellettuale degli Stranamore del mercato, ci può essere ampio accordo nel sottrarre allo scambio e al principio di prestazione, musei, ospedali e scuole (almeno fino a un certo grado) e, persino, nel trovare forme di utilizzo che, in qualche modo, rendano meno gravosi gli oneri della sfera pubblica—dai ticket ospedalieri a forme di gestione museale che consentano un compenso diretto di quanti tengano aperte mostre e gallerie. E del resto quante volte lo Stato, anche quello sabaudo, non è intervenuto nel finanziare opere d’arte, di scienza e di letteratura monumentali? Le edizioni nazionali degli scritti di Mazzini, di Garibaldi e di altre ‘glorie italiche’ non erano certo finalizzate al mercato e al profitto e non poche delle edizioni accademiche hanno dato lustro agli Stati che se ne sono fatti carico (penso ai classici greci e latini e alle loro edizioni critiche promosse in Inghilterra, in Francia, in Germania…).
Ciò riconosciuto, però, l’istanza comunitaria (nel senso detto) non può diventare il ricatto di chi se ne serve per sussumere, indistintamente, sotto la categoria dei ‘beni culturali’ teatri e musei, fondazioni e istituti di cultura, ospedali e scuole (nell’elenco di Serra mancano le chiese eppure viviamo in un paese in cui esse sono autentici musei aperti a tutti, credenti e non credenti, e non solo nelle grandi città d’arte, Roma, Firenze, Venezia–musei che non possono certo mantenersi con l’obolo dei credenti e con l’acquisto di candele o altri oggetti devozionali). Il problema non si pone quando sono in questione non i ‘monumenti culturali’ del passato—per i quali è ipotizzabile un diffuso consenso– ma entrano in goco la produzione artistica, letteraria, filosofica del presente e i circuiti –convegni, trasmissioni televisive, festival vari—che debbono essere organizzati e attivati affinché essa diventi visibile e fruibile. Qui intervengono due convincimenti che si sostengono a vicenda e si traducono davvero, come denuncia Ostellino, in mentalità da Minculpop: –il primo è che tutto è cultura—anche il concerto dei Pink Floyd che l’amministrazione comunale di centro-sinistra pagò a suon di miliardi; anche i film di Sabina Guzzanti e di Nanni Moretti; anche gli spettacoli teatrali di Daniele Luttazzi e di Maurizio Crozza;
–il secondo è che la cultura va promossa dagli enti pubblici, senza alcuna preoccupazione per i costi.
Il primo convincimento è del tutto innocuo: esso affonda le sue radici in una filosofia postmoderna–bene illustrata da Umberto Eco anni fa quando spiegava che tra una canzone di Mina e una sinfonia di Mozart la differenza stava solo nella complessità del rispettivo linguaggio musicale–che ovviamente non può essere censurata, ciascuno avendo piena di libertà di credere in quel che vuole e che lo gratifica intellettualmente e sentimentalmente. Il secondo convincimento, invece, è pericoloso giacché legittima un eguale trattamento per ogni merce culturale, presente o passata, addossandone il sostegno alla sfera pubblica.
Non essendo un fondamentalista del mercato ma un estimatore della democrazia (liberale) non trovo illegittimo che un governo voglia ‘incoraggiare’ cantautori, artisti, filosofi del nostro tempo e ritenga di doverne finanziarne lautamente l’attività. A patto, tuttavia, che ci sia accordo su due punti fondamentali: il primo è la ‘pubblicizzazione’, che i partiti al potere espongano chiaramente i loro programmi di aiuti e che questi siano riportati in un libro aperto che tutti possono consultare, approvare o criticare. Personalmente non voterei mai per un partito che intendesse dedicare, con i soldi del contribuente, un museo a Fernanda Pivano o a Edoardo Sanguineti ma non riterrei illegittima una eventuale legge in materia.
L’altro punto riguarda il non diritto alla protesta se un diverso governo, d’altro colore, decidesse, che so io, di contribuire concretamente alle spese di gestione di un ente culturale dedicato alla storia dei martiri cristiani o agli studi di patrologia. Se si danno soldi a Radio Radicale, se ne potrebbero dare anche a Radio Maria, qualora dedicasse all’informazione un egual numero di ore. Quanto a me non destinerei un centesimo né all’una né all’altra ma se la maggioranza dei miei connazionali vota per partiti diversamente orientati, non posso pretendere che la mia opinione rappresenti la Verità : la politica, come l’etica, è <senza verità> e ritenere inopportuno o ingiusto il detto finanziamento è questione di ‘gusti’ e di argomentazioni; il ‘bene’ e il ‘male’ non c’entrano, intervenendo solo nei casi limite della tirannide o della dittatura totalitaria.
Il doppiopesismo di gran parte della sinistra, in queste materie, rivela una sindrome autoritaria e giacobina che non rinuncia a tener sotto controllo tutte le possibili ‘agenzie dei valori’ ma non riesce, poi, a giustificare perché non fanno problema i miliardi concessi alla RAI per un servizio pubblico (informazione giornalistica e scientifica) che rappresenta forse meno del 20% del bilancio dell’Ente mentre diventa un vulnus alla laicità dello Stato finanziare le scuole private confessionali o Istituti come lo Sturzo, che svolgono anch’essi attività culturali, ma senza il costosissimo seguito di nani ,ballerine e tele-mistagoghi vari.
A scanso di equivoci, un liberale autentico non può essere insensibile al tema della <laicità> ma esso, nella società italiana contemporanea, si è svuotato di ogni serio possibile contenuto. Il laico dell’Ottocento protestava contro la pretesa del clero di assimilare reato e peccato: la laicità significava allora che non dovevano esserci autorità spirituali a imporgli le norme di condotta in tutto ciò che riguardava la sua privacy, la sua attività professionale, le sue scelte di vita. Oggi, però, a condizionare il destino dei singoli, non sono più le autorità ecclesiastiche ma quelle che detengono de facto il potere simbolico e che hanno interiorizzato il registro cattolico dei reprobi e degli eletti. Se in una Facoltà universitaria—soprattutto umanistica–si entra con ‘Libero’ o col ‘Giornale’ sotto braccio si rischia di dover giustificare una scelta così ‘anomala’, si mette a repentaglio la carriera (se non si è già in cattedra), ci si espone alla pubblica—e non sempre tacita—riprovazione morale. E così accade in quasi tutte le sedi che rientrano nell’orbita dello Stato. Dov’è la libertà? intitolava Roberto Rossellini il suo malinconico film del 1952. Dov’è la laicità?, ci si può chiedere ora. Davvero sono rispettabili—e rispettate– tutte le opinioni e concezioni politiche, di destra e di sinistra, purché condannino il sovvertimento violento delle istituzioni repubblicane e s’impegnino a rispettare la volontà del popolo, liberamente convocato nei comizi elettorali? In Italia è difficile crederlo anche per una political culture che viene da lontano e che fonda la legittimità di un governo e di una coalizione sulla sua capacità di trasformare senza tregua l’esistente, di ‘andare sempre avanti’, di realizzare ‘riforme di struttura’ e quant’altro, all’insegna della divisa (non solo fascista!): <chi si ferma è perduto!>. In tal modo la laicità diventa un’arma contro le religioni della trascendenza ma non intacca quelle dell’immanenza, anzi tende essa stessa a diventare una ‘religione politica’, che, ad esempio, impone di considerare la Costituzione italiana come la migliore del mondo, eleva l’antifascismo quasi a una mistica, fa della ‘terza via’ tra capitalismo e collettivismo un dogma di fede e si guarda bene dal rilevare che ‘libertà’ ed ‘eguaglianza’ possono trovarsi in un rapporto a somma zero.
Ma c’è un altro aspetto della ‘questione italiana’ ancora più sconcertante. In fondo, in tutti i paesi e in tutte le epoche storiche, la civic culture è stata plasmata dalle classi eminenti. La filosofia politica sottesa all’opera di Francesco De Sanctis, per fare un esempio significativo, non era certo quella della maggioranza degli Italiani ma nondimeno rispecchiava i valori e le idealità dei ceti che contavano—la minoranza borghese e aristocratica che costituiva l’elettorato attivo e passivo. In quella filosofia si poteva anche riconoscere, marxianamente, una forte componente <ideologica>, nel senso del travestimento ideale di privilegi e assetti di potere acquisiti in virtù del processo di unificazione politica della penisola: innegabile, tuttavia, rimaneva l’’armonia prestabilita’ tra la posizione sociale della borghesia e la cultura elaborata dai suoi migliori ‘intellettuali organici’.
Il fatto nuovo, la cui portata non è mai stata oggetto di analisi approfondita, è che oggi le merci artistiche, letterarie, filosofiche prodotte dall’intellighentzia non sono quelle delle ‘classi che contano’– in democrazia , l’esecrato ‘numero’, la maggioranza elettorale—ma ne sono lontane anni luce. In una società di mercato, tale divario non avrebbe alcuna conseguenza. Laddove tutti pagano di tasca propria il libro, il film, il sermone dei preti e quello dei filosofi, se si vendono milioni di copie degli scritti di Che Guevara, il simbolo del rivoluzionarismo antiamericano effigiato in migliaia di magliette nei campus universitari, è qualcosa che non tocca l’uomo della strada. Lo stesso vale per il successo dei libri di Newt Gingrich in cui si predica che: “Tutti i nostri diritti vengono dal nostro Creatore… In quasi tutti i paesi, il potere appartiene allo Stato ed è occasionalmente concesso agli individui. In America il potere discende da Dio agli individui ed è concesso allo Stato>.
Completamente diversa, invece, è la condizione di una società, come la nostra, che:
–tiene in alto pregio la cultura;
–non ne possiede una nozione che trovi tutti(o quasi consenzienti),
–affida allo Stato, per antica diffidenza nei confronti del mercato, il compito di promuoverla.
In questo caso, tout va très bien quando i valori culturali diffusi sono partecipati e condivisi ma le cose si complicano enormemente quando chi fa parte di una maggioranza elettorale e politica deve spendere del suo per assicurare elevati standard di vita a comici,a registi, a saggisti, a filosofi costantemente impegnati nel delegittimare moralmente, culturalmente, politicamente il loro ‘piccolo mondo’ e quanti lo rappresentano al governo e in parlamento. Il leghista o il pidiellino che non hanno nulla da eccepire se Luciana Littizzetto o Sabina Guzzanti satireggiano, in modo pesante, il Cavaliere, insinuando tremendi sospetti sulla sua onorabilità, non si rassegnano al fatto che gli attacchi vengano teletrasmessi anche con i loro soldi di abbonati.
E’ da queste peculiarità italiche che parte la richiesta di un radicale cambiamento di registro e dell’instaurazione di un vero e proprio ‘mercato culturale’ che tagli finalmente la testa al toro. <Il mercato, per Serra, è un selettore spesso provvido, ma altrettanto spesso avido e imprevidente>. Sostenitore deciso del mercato, trovo tale linguaggio persino troppo diplomatico e indulgente. No, il mercato può distribuire—e assai spesso lo fa—vera e propria ‘robaccia’, prodotti scadenti e nocivi alla salute del corpo e dell’anima. E tuttavia ha un grande, decisivo, merito che ‘fa tutta la differenza’: non ci impedisce di essere cattivi, ma non ci obbliga neppure ad essere buoni. Possiamo acquistare o astenerci dall’acquistare, possiamo essere invogliati a comprare le merci che le varie ditte espongono in vetrina, facendoci credere che vengono incontro ai nostri desideri, ma possiamo esserne dissuasi dalle esperienze contrarie che ne abbiamo fatto. La nostra sovranità di compratori—per quanto influenzata o influenzabile dai messaggi pubblicitari—rimane però intatta, giacché l’influenza non è di per sé potere e ciò che arriva a una psiche suggestionabile può esserne rimosso se qualcuno o qualcosa si incarica di ‘aprirle gli occhi’.<Lo Stato> che <a nome della collettività, investe sulla cultura perché investe sulla formazione dei cittadini, cioè sul futuro>, se pretende di spalmare sull’intera società civile i modelli culturali di una parte della ‘public opinion’, per giunta elettoralmente minoritaria, sostituisce alle caramelle del mercato l’olio di ricino dell’indottrinamento collettivo, il dovere di diventare ‘buoni cittadini’.
Il problema, spero che sia risultato chiaro, non è solo quello di stabilire ciò che lo Stato deve fare—o astenersi dal fare– <per la cultura> ma anche l’altro, forse ben più drammatico, di definire i compiti che gli restano in mancanza di una definizione condivisa della cultura. E’ un problema che Serra non si pone perché per lui la Cultura è una sola, quella dei suoi amici rimasti (forse) senza sovvenzioni pubbliche.