Il rischio vero del Pdl è ammalarsi del virus dell’ipocrisia
11 Ottobre 2011
Il Popolo della Libertà è percorso da un virus che potrebbe definitivamente stroncarlo: l’ipocrisia. Tutti quanti sono entrati nel Pdl al momento della costituzione delle liste elettorali – unico atto politico effettivo dal 2008 ad oggi – sono convinti della probabile sconfitta nel 2013. D’altra parte, da quando in Italia si vota secondo uno schema bipolare i governi uscenti non sono mai stati confermati e non c’è all’orizzonte nemmeno una ragione perché questa volta le cose vadano diversamente.
Non è inoltre così irragionevole pensare che una sconfitta elettorale porterebbe all’uscita dalla prima linea della politica di Silvio Berlusconi. Quello che è accaduto nel 2008 per l’unico leader vincente del centrosinistra, Romano Prodi, si potrebbe riproporre per Silvio Berlusconi dopo le elezioni e non prima. Anche se non mancano nel centrodestra gli aspiranti Veltroni. Formigoni è il principale uomo di governo territoriale che oggi il blocco berlusconiano esprime, così come Walter Veltroni, da sindaco di Roma, lo era per il centrosinistra nel 2008.
Come vedete, non ho mai fatto riferimento alle vicende giudiziarie del centrodestra e del suo leader, e nemmeno alla sua vita libertina e ai problemi che essa ha provocato in molti ambienti. Il primo problema, la “democrazia giudiziaria” è il principale cancro che devasta le istituzioni repubblicane e rappresenta una costante politica, come dimostra la caduta del governo Prodi nel 2008, ottenuta attraverso la persecuzione giudiziaria del Guardasigilli Mastella e della sua famiglia. Il secondo provoca diffusi imbarazzi che a un libertario come me suscitano spesso più divertimento che preoccupazioni. Anche se è vero, come ha scritto Giampaolo Pansa su Libero domenica scorsa, che ogni tanto il Cav sbrocca.
In vista di una probabile sconfitta, quasi tutta la classe dirigente del Pdl si sta – come si dice in gergo politico – riposizionando. E più si riposiziona, più si richiama all’unità del partito.
Così uno dei coordinatori nazionali – Ignazio La Russa, già missino, già Alleato Nazionale, già uomo di fiducia di Gianfranco Fini – pensa a “contarsi” nel Pdl per avere una propria formazione nel caso di dipartita del Popolo. Anzi, più che pensarlo, lo ha detto esplicitamente quando ha riaperto la storica sede di Via Mancini a Milano, ha richiamato in servizio i Circoli di An, ha organizzato una cena con 500 amici in onore de Il Secolo d’Italia e in sostituzione della abituale festa tricolore che, solo per una volta, è stata Festa del Pdl con presenza domenicale del leader. Se queste non sono prove tecniche del ridisciolto partito missino, di cosa si tratta? E sulla stessa scia si colloca Gianni Alemanno, con la proposta da parte di qualcuno dei suoi, di rimettersi insieme con Gianfranco Fini e con quello che resta di Futuro & Libertà, una sigla a cui restano pochi mesi di vita.
Simmetrico è il movimento di quell’area di matrice democristiana – e di personale politico pienamente Dc – che Berlusconi aveva via via raccolto in Forza Italia, fino a diluire nello statalismo dc post-degasperiano molti dei connotati liberali in campo economico e sociale delle origini berlusconiane. Le mosse di questi giorni del duo Scajola-Pisanu sono intinte di democristianeria allo stato puro e – come era regola nella Balena Bianca – pospongono le scelte politiche di fondo alle dinamiche politiche di potere, come se la patrimoniale potesse diventare potabile se a proporla fosse un governo di centrodestra che includesse uomini dell’Udc.
Nonostante smentiscano l’intenzione a ogni piè sospinto, gli ex-dc del centrodestra vorrebbero qualcuno che gli rimetta insieme una dc anche solo del 25%, e magari una legge proporzionale pura per rimettere in campo quel “teatrino” che il Cav, per il suo anticomunismo e per il suo rigetto dei riti politici, ha per moti anni affossato.
Restano poi due categorie antropologiche a completare il quadro. Quelli che se non li salvava il Cav. erano stritolati per sempre – mi riferisco all’ottima classe dirigente craxiana del Psi – e quelli che con Forza Italia hanno mosso i loro primi passi sulla scena politica nazionale. Entrambi questi gruppi sono tra i più determinati a sostenere Berlusconi fino alla fine della sua battaglia politica, chi per riconoscenza chi per convinzione. Peccato per loro (tra cui includo me stesso per evitare a mia volta l’ipocrisia) che questo gruppo abbia al suo interno Martino e Tremonti, cioé i simboli stessi del conflitto tra statalismo e libertà sul piano economico e fiscale, il terreno che Berlusconi comprese essere quello decisivo (insieme all’anticomunismo) per mobilitare la maggioranza degli italiani.
Questa linea di frattura ha percorso l’intera parabola berlusconiana. Abbiamo vinto le elezioni quando abbiamo presentato agli elettori la ricetta liberista e la cultura dell’impresa. Abbiamo governato e perso coltivando la malapianta statalista e il primato della politica inteso come dominio del ceto politico sulla ricchezza prodotta dalle imprese.
Se finora la cultura liberale ha mantenuto la sua presenza nel centrodestra lo si deve a Silvio Berlusconi, che più di una volta si è fatto garante in proprio di quella cultura, sia quando nel 1994 annunciò la sua svolta di libertà, sia quando nel 2001 costruì il più ambizioso programma di trasformazione della società italiana che si possa ricordare. Un programma rimasto purtroppo largamente inattuato. Nel 2006 e nel 2008 gli echi di quegli “animal spirits” del centrodestra sono rimasti nell’abolizione dell’Ici, l’unica patrimoniale sulle famiglie presente nel nostro ordinamento, ma poi si sono persi per strada per la gestione del contrasto all’evasione fiscale e per alcune politiche di bilancio.
Oggi a presidiare l’anima originaria di Forza Italia sembra siamo rimasti in pochi. Ed è anche per questo che ci siamo riuniti nell’associazione “Controcorrente”. Per non fare una corrente e rimanere leali innanzitutto a noi stessi. Leali, ma non ipocriti.