Il ritorno dell’antifascismo per coprire i vuoti del renzismo (e della sinistra)

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Il ritorno dell’antifascismo per coprire i vuoti del renzismo (e della sinistra)

Il ritorno dell’antifascismo per coprire i vuoti del renzismo (e della sinistra)

25 Febbraio 2018

La campagna elettorale è ormai costellata regolarmente di violenze e intimidazioni messe in atto in tutta Italia da gruppi di estremisti di sinistra che si qualificano come “antifascisti” contro i partiti di destra. Di fronte a questi eventi ricorrenti qualcuno si sorprende del fatto che simili tentativi di reprimere le opinioni avverse alle proprie e impedire la libertà di espressione venga giustificata con il ricorso ai princìpi dell’antifascismo. Ma basterebbe un’occhiata distratta alla storia – italiana e non solo – del Novecento per ricordare che la pretesa di impedire il pluralismo con l’alibi dell’antifascismo non è assolutamente una novità, ed anzi si ritrova costantemente nella storia della sinistra di matrice comunista e nelle sue filiazioni.

L’origine di questo atteggiamento sta in realtà nella natura totalitaria del marxismo-leninismo. L’obiettivo di quest’ultimo è la conquista del controllo assoluto della società attraverso ogni mezzo: quindi esso fin dal suo sorgere non contrasta gli avversari con le argomentazioni e i programmi, ma con la violenza fisica, e – quando ciò non è possibile come avviene quando sono ancora in piedi democrazie liberali pluraliste – con la delegittimazione più radicale. Per questo i partiti comunisti o socialisti-rivoluzionari europei negli anni Venti squalificavano i socialisti riformisti e democratici chiamandoli “socialfascisti”: non dissidenti, ma agenti del nemico, traditori, con i quali ogni dialogo era improponibile.

Lo stesso metodo, variando in parte il bersaglio, venne da loro adottato con la strategia stalinista dei “fronti popolari” negli anni Trenta: chi non si alleava con i comunisti (o meglio chi non si sottometteva ai comunisti) per fare fronte comune contro Hitler, Mussolini, Franco era additato come “oggettivamente” complice del fascismo e del nazismo. Tutta la forza propagandistica della rete internazionale comunista cominciò a battere ossessivamente su questo tasto: l’anticomunismo, o il dissenso verso il comunismo, non poteva essere considerato come una posizione autenticamente democratica, ma era invece una forma dissimulata di fascismo. Uno schema che venne largamente utilizzato per giustificare la feroce repressione dei dissidenti nel fronte repubblicano della guerra civile spagnola, e poi nella Resistenza italiana. E nel dopoguerra servì per coprire la rapida soppressione di ogni pluralismo democratico nei paesi dell’Est europeo occupati dall’Armata Rossa.

In Italia – dove la liberazione dal fascismo avvenne grazie alla vittoria delle truppe angloamericane, e nel fronte partigiano era stata presente una cospicua componente cattolica, liberale, monarchica e di sinistra non comunista – il Partito comunista godeva un forte radicamento sociale, e alla ripresa della democrazia ottenne un cospicuo consenso elettorale. Ma non aveva né la forza fisica né la possibilità geopolitica (nell’ordine internazionale di Yalta) per imporre una dittatura. Quindi cercò di massimizzare il proprio potere sociale e politico servendosi strumentalmente dell’arma dell’antifascismo. Da un lato usò apertamente la violenza, finché poté farlo, contro i propri avversari politici facendola passare come la continuazione della lotta antifascista (le migliaia di omicidi politici perpetrati da ex partigiani comunisti soprattutto nel Nord Italia). Dall’altro continuò a cercare di imporre lo schema del “fronte popolare” nel nuovo quadro politico: pretendendo governi di ampia coalizione “antifascista” in cui poter giocare un ruolo determinante; e, quando non poté più farlo dopo la svolta centrista di Alcide De Gasperi, invocando l’emarginazione dal dibattito politico di ogni forma di anticomunismo, accusato di essere in realtà antidemocratico e sostanzialmente accomunato al nostalgismo neofascista.

Le scene di intimidazione e violenza a cui stiamo assistendo in questi giorni da parte della sinistra dei “centri sociali” si erano già viste, in forme molto più imponenti, ad opera dei comunisti alle origini della democrazia repubblicana italiana: nella campagna elettorale amministrativa del 1947 e politica del 1948. Quando, soprattutto nell’Italia settentrionale, sedi e comizi dei partiti avversari al Fronte popolare venivano regolarmente aggrediti o sottoposti a pressioni ostili (di cui i romanzi guareschiani del ciclo di Don Camillo e Peppone danno un’idea piuttosto edulcorata).

Tali tentativi di snaturare, reprimere, condizionare il dibattito democratico poterono contare su un vantaggio psicologico fondamentale: l’inserimento nella Costituzione repubblicana della XII disposizione transitoria e finale che proibiva la ricostituzione “sotto qualsiasi forma” del Partito fascista. La disposizione era certamente necessaria per evitare possibili rigurgiti del regime sconfitto in una fase in cui la rinnovata democrazia italiana era ancora fragile, e venne rafforzata dalla legge Scelba approvata dalla maggioranza centrista nel 1952. Ma al fermo blocco difensivo verso l’eversione di estrema destra non corrispose mai (a causa della forza politica dei comunisti italiani, e per la paura dei moderati che ciò potesse portare ad una guerra civile) un’analoga barriera contro derive totalitarie a sinistra; come invece accadde nella Germania Federale, dove la vicinanza della Cortina di ferro e della minaccia sovietica fecero sì che nel 1956 una sentenza della Corte costituzionale mettesse al bando, in base all’articolo 21 della Legge Fondamentale del 1949, il locale partito comunista allo stesso titolo di quello nazista.

L’asimmetria prodottasi in Italia rispetto ai due totalitarismi venne considerata dalle sinistre da un lato come una incondizionata legittimazione per sé, dall’altro come un incentivo ad accusare di ricostituzione del fascismo qualsiasi movimento, gruppo, strategia, alleanza politica collocata a destra, o anche semplicemente contraria alla partecipazione delle sinistre al governo. Le campagne di aggressiva delegittimazione in nome dell’antifascismo da parte della sinistra comunista e filocomunista continuarono, dunque, a giocare un ruolo fondamentale in varie fasi delicate della storia del paese.

In particolare, la delicata transizione dal centrismo al centrosinistra avvenuta nel 1960 ebbe come snodo cruciale le dimissioni del governo presieduto da Ferdinando Tambroni (monocolore democristiano sostenuto anche dal Movimento sociale italiano)in seguito ai moti di piazza nati dalle proteste delle sinistre contro la decisione del Msi di tenere il proprio congresso a Genova: decisione giudicata come una “provocazione” perché il capoluogo ligure era una città “martire della Resistenza”.

Comunisti, socialisti e giovani proto-movimentisti (il Sessantotto non era lontano) misero in atto in quella sede una prova di forza – riuscita nonostante le vittime degli scontri estesi in varie città d’Italia nei giorni seguenti e la repressione poliziesca – per impedire il libero esercizio del diritto di parola e di associazione garantito dalla Costituzione ad un partito che, per quanto erede politico del fascismo, nessuno aveva fino ad allora giudicato passibile di scioglimento per essere l’aspirante restauratore del suo regime. La rinuncia di Tambroni aprì la strada al primo governo di centrosinistra (con l’astensione dei socialisti) presieduto da Amintore Fanfani. Ma non solo: quell’estate di violenza segnò la nascita di una vera e propria “mitologia” della Resistenza che ancora viene usata nella polemica politica dai discendenti di quella famiglia politica. Una mitologia completamente distaccata dalla storicità effettiva della lotta partigiana, dalla sua complessità, dalla sua natura minoritaria e plurale, e che invece la trasfigurava in un’epica lotta di popolo e nel principale fondamento della democrazia, in cui naturalmente alle sinistre veniva riservata la parte del leone.

In base a questa lettura strumentale e semplificata, la sinistra politica e intellettuale negli anni Sessanta additava come cripto-fascista e autoritaria qualunque corrente politica fosse contraria all'”apertura a sinistra” e tentasse di restaurare il vecchio equilibrio centrista. E ancor più chiunque osasse proporre – come Giuseppe Maranini, Randolfo Pacciardi o altri – una riforma della legge elettorale in senso maggioritario o della Costituzione in senso presidenzialista. 

In seguito, nel post-Sessantotto, la radicalizzazione della situazione politica conseguente l’esplosione della contestazione e la crescita della violenza tra estremisti di sinistra e di destra spinsero i gruppi extraparlamentari e il Pci a convergere sempre più spesso su una retorica che invocava la “vigilanza antifascista” e additava la principale minaccia per la democrazia italiana nella “strategia della tensione” neofascista, ignorando o sottovalutando l’escalation del terrorismo rosso. E negli anni Settanta, ancora una volta, l’accusa di “fascismo” sarebbe servita ai comunisti per isolare e delegittimare tutte le voci che si opponevano alla loro strategia, come i cattolici e i liberali contrari al “compromesso storico” tra Pci e Dc.

Con la decadenza del marxismo e la fine dell’impero internazionale comunista, la pretesa monopolistica sulla democrazia da parte della sinistra di origine comunista si spostò dalla contrapposizione antifascismo/fascismo a quella tra “diversità” morale e corruzione, ma conservò lo stesso radicale atteggiamento delegittimante: atteggiamento che ha fornito a quella sinistra una nuova identità tra la fine della prima Repubblica sotto la rivoluzione giudiziaria di Mani Pulite e l’avvento del bipolarismo nella seconda, tanto da sostituire in gran parte allo spauracchio fascista quello craxiano e berlusconiano.

Ma per cementare la loro autorappresentazione come garanti della democrazia e per mettere nell’angolo gli avversari i “democratici di sinistra”, poi semplicemente “democratici”, erano comunque sempre pronti a tirare fuori dal cassetto la carta dell’antifascismo: in particolare contro Berlusconi, delegittimato a priori per la sua coalizione con i “post-fascisti” di Alleanza nazionale. Proprio con la seconda Repubblica, infatti, le celebrazioni del 25 aprile, festa della Liberazione dal fascismo, assunsero un nuovo significato: quello di manifestazioni specificamente dirette contro il centrodestra, soprattutto quando quest’ultimo aveva vinto le elezioni ed era al governo.

Infine oggi, nel tramonto del renzismo e in un momento difficile per il Pd, in grave affanno nella competizione con il rinnovato centrodestra berlusconiano e con i 5 Stelle, la sinistra sempre più vuota di qualsiasi identità, ormai omologata al progressismo individualista mondialista, approfitta delle tensioni create nel paese dall’emergenza dell’immigrazione clandestina e dalle sue conseguenze sociali e di sicurezza per lanciare l’allarme su un presunto “ritorno del fascismo”. Identificando, questa volta, l’eterno spauracchio nell’emergere del razzismo e della xenofobia, e additando come minacce per la democrazia movimenti politicamente poco significativi come Forza Nuova o Casapound.

Una mossa evidentemente disperata, in cui ormai ogni riferimento realistico a ciò che è stato storicamente il fascismo in Italia è completamente assente. Ma che ha provocato un’escalation di tensione ideologica, perché è stata cavalcata opportunisticamente dalla nuova sinistra radicale di Leu e di Potere al Popolo per acquisire visibilità politica e consenso. E la drammatizzazione del conflitto prodotta da queste forze ha riattizzato a sua volta la violenza endemicamente latente nei vecchi centri sociali, i quali si sono sentiti sostanzialmente autorizzati ad attaccare fisicamente le destre dovunque potessero. E hanno cominciato ad aggredire sistematicamente non soltanto i gruppi di estrema destra, ma anche quelli della destra “istituzionale”, come la Lega di Salvini e Fratelli d’Italia.

Insomma, la grancassa del nuovo “antifascismo” (che è l’eco del vecchio, originario d.n.a. totalitario della sinistra massimalista italiana) non avrà probabilmente nessun effetto tonificante sulle magre fortune del Pd, ma andrà ad aumentare soltanto il consenso della sinistra (e forse della destra) radicale. Ma il partito della sinistra di governo non riesce, tuttavia, a prendere definitivamente le distanze da questo ritorno all’intolleranza più settaria. Perché la politica, come la natura, rifiuta il vuoto, e il vuoto pneumatico caratteristico della cultura politica piddina si riempie di qualunque suggestione si spera possa ancora mobilitare una base ormai disgregata e sfiduciata. E perché quel settarismo resta un potente “richiamo della foresta” per una forza politica che è pur sempre l’erede della storia del comunismo. Una storia rimossa da un certo punto in poi, ma dalla quale essa non ha mai saputo prendere veramente e definitivamente le distanze.