Il ritratto di Hoover fatto da Eastwood è una mezza delusione
08 Gennaio 2012
Insomma chi è stato veramente J. Edgar Hoover, per quarantotto anni a capo dell’FBI? Un grande poliziotto, un grandissimo organizzatore della lotta alla criminalità, l’uomo che braccò senza sosta e stese a terra il «nemico pubblico» John Dillinger nel 1934? Oppure un cinico, avido di potere, ricattatore di professione, il braccio armato dell’ondata maccartista, persino omosessuale? Hoover salì in sella quando l’America stava diventando moderna e la criminalità era metropolitana e dominata da figure con il mitragliatore fra le mani, come George R. Kelly “machine gun”; ne scese quando era diventata ultramoderna e la criminalità globalizzata, con i capi seduti comodamente nelle poltrone di pelle dei consigli di amministrazione.
Insomma chi è stato Hoover? Un angelo, o un diavolo? A questa domanda doveva rispondere il nuovo, attesissimo film di Clint Eastwood “J. Edgard”, interpretato da Leonardo DiCaprio. Diciamolo subito, senza giri di parole: è una mezza delusione. Non è una delusione totale poiché dietro la macchina da presa c’è un navigato regista, e davanti all’obiettivo c’è un attore dalle capacità camaleontiche straordinarie, che passa dai venticinque ai settant’anni con credibilità sorprendente. In patria “J. Edgar” è andato piuttosto male (uscito all’inizio di novembre ad oggi ha portato a casa la miseria di 36 milioni di dollari). Da noi andrà certamente meglio per l’identica ragione che ha consentito a Woody Allen di “Midnight in Paris” di ottenere incassi da “blockbuster”: certi registi americani sono premiati dagli europei a prescindere dalle qualità dei film. Clint Eastwood gode poi di un’autorevolezza indiscutibile.
Il ritratto di Hoover è oscillante: un investigatore di qualità privo di scrupoli. Abile nell’escogitare strategie innovative per combattere il crimine, come nel confezionare dossier da utilizzare contro i nemici. Il ritratto di Eastwood ha i colori predominanti del chiaroscuro. Non ha la meglio l’anima nera del protagonista su quella bianca, né viceversa. Anche sulla questione dell’omosessualità di Hoover si resta sul vago. Potrebbe essere e non potrebbe essere che il superpoliziotto d’America, ritratto dell’irreprensibilità morale, mai sposatosi (corteggiò la fedele segretaria Helen Gandy, ma questa non ne volle sapere), in realtà avesse una relazione con l’insperabile collaboratore Clyde Tolson. Hoover fu l’uomo che si guadagnò la riconoscenza generale scoprendo i rapitori del figlio dell’eroe dell’aviazione americana Charles Lindbergh, un caso che ebbe straordinaria presa sull’opinione pubblica; e fu l’uomo che lavorò in maniera scorretta contro gli attivisti del movimento dei diritti civili di Martin Luther King. Un tipico cittadino americano, duro e determinato, con una volontà di ferro, non cresciuto nella comodità, con una madre autoritaria e un padre debole. Una volta diventato padrone del mondo, Hoover non volle più mollare il giocattolo, iniziando a giocare davvero sporco.
Eastwood non è Oliver Stone, abituato a distruggere ciò che gli sta sulle scatole. La sua biografia è giocata sul chiaroscuro, sulla contraddizione, sulla imperfezione. Ma questa scelta non è pagante. Troppo facile affermare che gli uomini sono deboli, anche quando appaiono pubblicamente fortissimi, e che i confini tra legalità e illegalità sono sottilissimi. Alla fine restano le opere. Avere per mezzo secolo Hoover alla guida dell’FBI è stata una fortuna o una sfortuna per l’America? Il brodino “politicamente coretto” da parte di Clint Eastwood proprio non ce lo aspettavamo.