Il romanticismo spiegato da Berlin ci dice da dove veniamo e dove andiamo
27 Dicembre 2009
Ci stiamo avvicinando velocemente alla fine dell’anno ed è già tempo di bilanci. Inevitabile la domanda su quale sia stato il più bel libro letto quest’anno. Ho pochi dubbi, anzi, per una volta non ne ho affatto: è L’età romantica di sir Isaiah Berlin. Le ragioni sono poche ma di peso. Lasciamo stare la conoscenza profonda dei temi di cui parlava quello che dovette essere anche uno splendido insegnante: testi letti e riletti, citazioni perfette, le maggiori interpretazioni sulla punta delle dita. Berlin sapeva semplificare gli argomenti di cui parlava senza cadere nel semplicismo: riusciva cioè a renderli comprensibili senza distorcerli, senza che la riduzione della difficoltà a uso dell’ascoltatore o del lettore andasse a detrimento della fedeltà con la quale una tesi veniva resa. Questo non è un merito da poco.
Sulla questione si distinguono infatti dall’età della pietra due grandi e opposte scuole. L’una – esoterica – afferma: solo io, con decenni di letture ed esperienza alle spalle, ho accumulato un sapere tale da riuscire a capire questo testo (oppure: questo problema, questo autore, questa corrente di pensiero). L’altra – essoterica – replica: tutti, anche se con scarsa o nessuna pratica intellettuale, possono accostarsi a questo testo (oppure: questo problema, questo autore, questa corrente di pensiero) proprio come me. La prima scuola ha un punto di vista esclusivo, la seconda inclusivo. La prima ha un presupposto aristocratico, la seconda democratico. La prima scoraggia il lettore dall’intraprendere personalmente la lettura di un testo (oppure: un problema, un autore, una corrente di pensiero), la seconda lo incita a farlo e ripone nel lettore ancorché digiuno di ogni sapere la massima fiducia. La prima ha una concezione autoritativa del sapere secondo la quale il sapere discende da una autorità (è l’attualizzazione dell’ipse dixit), la seconda una concezione aperta secondo la quale è l’intelligenza di ognuno (una dote distribuita piuttosto a caso nel genere umano) a dover sorreggere la lettura di un testo (oppure: un problema, un autore, una corrente di pensiero).
Berlin, malgrado la sua sapienza formata in lunghi anni di studio e insegnamento, in tutte queste alternative si sarebbe schierato immancabilmente con il secondo corno del dilemma, e qualche volta lo avrebbe anche esagerato, come accade non di rado ai sostenitori della linea democratica: preferiscono affermare che tutti sono uguali davanti a un testo (oppure: un problema, un autore, una corrente di pensiero), anche se in cuor loro pensano che non è proprio esattamente così che stanno le cose. Certo, quando si legge un autore che la pensa in tal modo (e poco importa che lo creda fino in fondo), non si può negare che ci se ne accorge: il lettore viene messo nelle condizioni di giudicare da solo gli autori e le teorie di cui si discute, le varie tesi in questione vengono esposte in breve e senza contorcimenti inutili, le obiezioni sono avanzate in modo chiaro, l’opinione dell’autore è espressa a chiare lettere senza nascondersi dietro il giudizio di qualche altro autore o studioso. Viene in mente che per diventare così occorre una scuola in cui lo si impari: da noi, ad esempio, farlo prima di essere diventato ordinario o aver trovato un lavoro a tempo indefinito è altamente sconsigliabile. Sai quanti potrebbero indispettirsi per questo stile di discussione che fa a meno di note pedanti e bibliografie erudite e va al cuore dei concetti! Roba da esser bocciati o licenziati. E’ soprattutto da questo punto di vista, credo, che l’università italiana (e prima ancora la scuola) fa acqua: pensare con la propria testa è qualcosa che viene considerato con sospetto in ogni ordine e grado di essa, pressoché in ogni campo disciplinare.
Ma dicevo delle ragioni per le quali questo libro è bello, anzi bellissimo. Stavolta Berlin si applica all’età romantica: tema vasto e quasi inaffrontabile, a meno di sintesi indegne. Sceglie di indagare le idee politico-filosofiche che sono alla base dell’età romantica: troviamo così che al centro della trattazione c’è Jean-Jacques Rousseau. Non ce lo saremmo aspettati. E invece Berlin crede che i temi maggiori del romanticismo siano tutti in Rousseau: l’autenticità contrapposta alla artificialità, la democrazia diretta quale esempio massimo di partecipazione politica, l’unità quasi mistica della volontà generale, la sacralità e il mistero che circondano la stessa volontà generale, l’idea di una primigenia bontà dell’uomo che si corrompe in società, l’identificazione della proprietà con l’origine di tutti i mali, la posizione centrale della libertà dell’individuo, la festa contrapposta al teatro, il corpo sociale all’individuo isolato, l’essere all’avere. A occhio e croce ha decisamente ragione.
Il volume serve a verificare quale sia la concezione della libertà propria di Berlin: se quella negativa o quella positiva. Che sia l’una o l’altra, comunque, essa dipende e discende da una serie di autori che vanno grosso modo da Kant a John Stuart Mill. Ecco, l’ultima ragione che desidero segnalare per spiegare la grandezza di questo libro è che giustamente Berlin osserva che quegli intellettuali come Rousseau, Mill, ai quali aggiunge Michelet, Mazzini, Carlyle, sono più vicini a noi di quanto lo siano (e lo siano a loro) autori pure basilari quali Hobbes, Bayle, Spinoza, Locke, perfino Montesquieu: mentre linguaggio e mondo teoretico di questi sono separati da noi, le idee e il modo di esprimerle dei primi sono i nostri, senza fratture. Osserva Berlin: “Fascisti e comunisti, imperialisti e totalitaristi, repubblicani liberali e anche monarchici costituzionalisti, ancora oggi, parlano il linguaggio, non semplicemente di Burke ma di Hegel; sociologi di ogni corrente, pianificatori e tecnocrati, propugnatori del New Deal, storici della società e dell’economia, tutti usano, magari senza saperlo, le nozioni e la terminologia di Saint-Simon praticamente senza alterazioni. E non sono soltanto i tradizionalisti irrazionalisti e i nemici della democrazia, e i discepoli di Charles Maurras, a frequentare il violento mondo creato da Joseph de Maistre quasi tutto da solo. Né dovrebbe destare grande meraviglia, come invece potrebbe succedere, il fatto di scoprire quanta parte dell’anti-intellettualsimo e dell’esistenzialismo d’oggi (specie di tipo ateista), e quanta etica ‘emotiva’, vi siano, non già solo in Kierkegaard o in Nietzsche o Bergson, ma negli scritti di Fichte e nei dimenticati trattati di Schelling.” Ma la sua convinzione della presenza di quegli autori nel mondo contemporaneo non si declina in modo banale: non segue la categoria dell’anticipazione o dell’inveramento né ritiene gli autori responsabili della ripresa successiva e dell’uso politico del loro pensiero. Semplicemente, rintraccia le origini di alcune idee negli autori che ne hanno trattato per primi.
Cercare le origini culturali del tempo in cui viviamo è un’impresa che, quando viene tentata, viene realizzata in genere con risultati discutibili. E’ utile invece saper riconoscere da dove prendono origine concettualmente i fenomeni politici e le teorie maggiori della politica di oggi, di un ieri del quale ancora si discute: i totalitarismi, il consenso ai ditattori, le nostre concezioni della libertà. Berlin ci fa con questo libro un regalo inaspettato: chi avrebbe detto che attraverso l’età romantica avremmo capito meglio il tempo che viviamo?
I. BERLIN, L’età romantica. Alle origini del pensiero politico moderno, a cura di H. Hardy, trad. it. Milano, Bompiani, 2009, pp. 431, euro 25