Il Sessantotto è la patologia dell’università italiana

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Il Sessantotto è la patologia dell’università italiana

04 Giugno 2008

C’è un nesso tra le parole sui giovani pronunciate dal governatore della Banca d’Italia Mario Draghi nel corso della consueta Assemblea annuale e quanto successo a “La Sapienza” qualche giorno fa? 

Nelle sue Considerazioni finali il numero uno di Via Nazionale ha parlato dell’“istruzione inadeguata”, che oggi “mortifica i giovani” e che sostanzialmente preclude loro la possibilità di diventare classe dirigente nel Paese, se non per esclusivo ius sanguinis. La solita retorica sulla questione generazionale e sulla mancanza di spazi per gli under-35, insomma? Mica tanto. Perché, sostengono le statistiche di Bankitalia, “non raggiungono il livello minimo di competenze giudicato necessario in una società avanzata il 50,9% dei quindicenni nella lettura e nella comprensione dei testi (con un aumento rispetto al 2006 di oltre 6 punti percentuali), il 32,8% in matematica e il 25,3% in scienze (42,8%, 21,3% e 23,3%, rispettivamente, nella media dei paesi Ocse)”. Altro che emergenza educativa. Qui si tratta di un disastro culturale.

Lo stesso disastro dal quale emergono le gramigne umanoidi che dal sessantotto invadono e infestano le nostre scuole e università. Professori e studenti. Tutti appassionatamente immersi in quel brodo di coltura che genera opposti estremismi, indolenza, anti-meritocrazia, pigrizia intellettuale, che in Italia ancora osiamo chiamare mondo accademico. Perché meravigliarsi allora dei collettivi di sinistra che hanno sequestrato il preside della facoltà di Lettere dell’Università La Sapienza Guido Pescosolido, reo di aver autorizzato una conferenza sulle foibe organizzata da un gruppo sedicente neofascista all’interno dell’ateneo romano? 

La domanda iniziale allora è ovviamente retorica, e il nesso c’è. Eccome. E riguarda il più ampio problema del sistema educativo e dell’istruzione, così come uscito dalla “rivoluzione” del 68. Perché lo spartiacque è solo quello. Chi lo nega o ignora i fatti o è in malafede. E dovrebbe arrossire di vergogna davanti alle parole di chi ancora sostiene che “l’Italia non è riuscita ad elaborare, come è stato fatto in altri Paesi a partire dalla Germania, il proprio passato in modo democratico” anche a causa del “governo attuale in cui siedono i fascisti che hanno un’idea della gestione del potere totalitaria e non democratica”, come ha detto sabato in un’intervista al Corriere della Sera la professoressa Laura Ronchi De Michelis. Onestamente c’è di che rimanere affascinati, e la tesi qualora dimostrata ben potrebbe concorrere per il Nobel. Già perché se da sempre la storia la fanno i vincitori, credevamo di vivere in un mondo quantomeno impregnato dall’ideologia comunista e di sinistra, che dal 1948 – e ancor più dal 1968 – ha saputo “okkupare” cultura e università, spazi politici e informativi. Ma forse abbiamo dormito a occhi aperti. Ed è ora il caso di svegliarsi. 

L’emergenza educativa riguarda le scuole e gli atenei, che non assolvono più ai loro impegni, e nei quali gli studenti – o presunti tali – partecipano solamente a giganteschi happening organizzati da professori fannulloni figli del “vietato vietare”, che pretendono di assegnare patenti di legittimità istituzionale antifascista e di conferire diritto di parola a chi lo merita. Purché la parola, però, rispetti un certo conformismo benpensante e radical chic. Scuole e atenei sono diventati centri sociali più che strutture formative. In cui si è completamente abdicato alla trasmissione rigorosa della conoscenza, all’apprendimento metodico della materia, allo sviluppo meritocratico delle capacità dei discenti. In nome dell’assenza di doveri, di un egualitarismo ipocrita e dannoso, di un sapere-bricolage che ognuno può modellare a propria immagine e somiglianza.

Don Giussani parlava di rischio educativo già nella metà degli anni 90, e le sue affermazioni sono state riprese solo pochi giorni fa da Papa Benedetto XVI, bandito a sua volta dalle aule della Sapienza. Purtroppo però si è oggi ben oltre la soglia dell’emergenza, della quale invero si può parlare riguardo a un evento improvviso che va contrastato con azioni rapide e intensive. L’istruzione italiana naviga a vista da tempo, segno che ormai l’emergenza è diventata, e non da ieri, patologia. Alitalia e la riforma della pubblica amministrazione sono importanti, emergenze da affrontare immediatamente. Ma se non si metterà mano in profondità e con solerzia al sistema educativo, tra dieci anni ci ritroveremo con un nuovo caso Alitalia e un’altra marea di “fannulloni” con cui fare i conti. Sono la bontà e la competenza della classe dirigente che fanno il pil. Non viceversa. Forse Draghi voleva dire proprio questo.