Il Sessantotto fu una rivolta generazionale ma fino ad un certo punto
09 Dicembre 2007
“Il Sessantotto visto da destra”, la riflessione dell’On. Giorgia Meloni
(L’Occidentale, 25 novembre), è preziosa, perché porta una voce nuova e non
“reducista” in un dibattito che è di solito inficiato dal pregiudizio politico,
sia di coloro che vi vedono la matrice di tutti i mali del presente, sia di
quelli che invece vi vedono un fruttuoso rito di passaggio tra il Dopoguerra e
la fine della Guerra Fredda.
La tesi della Meloni è che il Sessantotto è stato soprattutto una rivolta
generazionale, “roba concreta non ancora viziata dalle ideologie”,
“un movimento nel quale si riconosce[va] una intera classe
giovanile”. Questi giovani, che appunto non avrebbero avuto né “credo
di provenienza” né “appartenenza politica” e che ancora
vestivano in giacca e cravatta, avrebbero rivolto “domande alla
società”, tra le quali, la Meloni esemplifica, il “sacrosanto diritto
allo studio”. Soltanto in un secondo momento questa “classe
giovanile” si sarebbe politicizzata, passando all’eskimo e al “sei
politico” e dalle rivendicazioni pragmatiche alla “furente battaglia
ideologica”, rovinando così l’ecumenismo creativo degli inizi.
La riflessione è preziosa perché, senza porsi pregiudizialmente
“pro” o “contro”, utilizza invece la prospettiva storica
(anche se la Meloni dice di non essere né storica né docente) di una persona di
trent’anni, di chi, insomma, scrive di Sessantotto come potrebbe trattare di
Risorgimento. Tale distacco è sottolineato dal fatto
che la Meloni riconosce tanto alla sinistra quanto alla destra del movimento
sessantottino un carattere creativo e “rivoluzionario” che avrebbe
accomunato entrambe nel conflitto con i partiti che istituzionalmente
rappresentavano la sinistra e la destra, cioè il Partito Comunista Italiano
(PCI) e il Movimento Sociale Italiano (MSI).
La tesi della
Meloni poggia però su tre postulati sui quali non siamo d’accordo. Il primo è
quello della “sinergia” tra giovani rivoluzionari di destra, che lei
esemplifica nell’organizzazione studentesca Fronte Universitario di Azione
Nazionale (FUAN) legato al MSI, e il cosiddetto “movimento
studentesco” in occasione dell’occupazione della Facoltà di Lettere e
Filosofia dell’Università di Roma. A nostro avviso, tale sinergia non ci fu
mai. Non soltanto i due movimenti si odiavano e i loro esponenti si
massacravano di botte (e peggio) appena ne avevano l’occasione, ma non esisteva
alcun “movimento di destra” che, come la Meloni sostiene, occupasse
stabilmente la Facoltà di Giurisprudenza. Questa occupazione (che
effettivamente ebbe luogo nel febbraio 1969) fu in realtà una occupazione manu
militari (ed estremamente violenta) che aveva come unico scopo quello di
provocare l’intervento delle forze dell’ordine e chiudere il capitolo
dell’occupazione “di sinistra”.
Al di là di
quella specifica esperienza, comunque, in quegli anni in Italia mai esistette un
“movimento di destra” (e tantomeno sinergico al quello “di
dinistra”), nel senso di un gruppo davvero radicato tra gli studenti che
esprimesse un progetto politico alternativo di lungo termine e che non fosse di
semplice reazione alla sinistra movimentista. In questo senso, la differenza
tra MSI e FUAN riguardava soltanto il livello dello scontro fisico accettabile.
Il movimento studentesco “di sinistra”, invece, quel progetto —
utopistico, deleterio e distruttivo quanto si vuole — lo ebbe fin dal 1968.
Per trovare un progetto politico “di destra”, o almeno frammenti di esso, bisognerà
invece attendere oltre un decennio.
Secondo
postulato, quello della partecipazione del “movimento studentesco
cattolico”. Anche questo, come tale, non esistette se non nel senso che
molti giovani cattolici, che negli anni precedenti si erano risconosciuti in
movimenti orientati verso il sociale come la Gioventù Italiana di Azione
Cattolica (GIAC), la Federazione Universitaria Cattolica Italiana (FUCI),
nonche Gioventù Studentesca (GS), si erano riversati nel movimento studentesco
(di sinistra), per perdere però quasi immediatamente le loro caratteristiche di
cattolici e riconoscersi soltanto in quella ideologia del movimento che si
rifaceva esplicitamente alla rivoluzione comunista (pur con tutti i distinguo
del caso). L’esperienza della Facoltà di Sociologia dell’Università di Trento
fu emblematica in questo senso. Anche per i cattolici bisognerà attendere il
successo di Comunione e Liberazione (nata da GS proprio nel 1969) negli anni
ottanta perché si possa parlare di un movimento e di un vero e proprio progetto
politico alternativo.
Terzo postulato
della Meloni, quello dell’identificazione tra il movimento studentesco del
Sessantotto e i carri armati che repressero nel sangue la Primavera di Praga,
il movimento dissidente che, sotto la guida del primo ministro Alexander Dubček
(1921-1992), per un breve periodo (5 gennaio-20 agosto 1968) riuscì a portare a%0D
livello istituzionale le istanze anticomuniste studentesche e operaie che
poi ebbero successo tra il 1989 e il 1991 grazie a quelle rivoluzioni
semipacifiche che cambiarono volto ai paesi del Patto di Varsavia, chiudendo
una volta per tutte il lungo capitolo della disastrosa utopia comunista, almeno
nel mondo occidentale. Tale identificazione tra movimentisti e sovietici non ci
fu. Furono il PCI e il suo satellite fiancheggiatore, il Partito Socialista di
Unità Proletaria (PSIUP), a essere presi di contropiede tanto dalla Primavera
di Praga quanto dalla repressione sovietica, quasi sempre esprimendo
comprensione per l’intervento sovietico. Ma il movimento studentesco come tale
fu inequivocabilmente favorevole al sommovimento provocato da Dubček, anche se
con tutti gli anatemi rituali nei confronti della “socialdemocrazia”.
Detto questo, la
tesi della Meloni, quella della “rivolta generazionale” è però pienamente
condivisibile, ed è anzi oggi la più accreditata, soprattutto quando si guardi
al fenomeno del Sessantotto nella più ampia prospettiva del mondo occidentale.
La giovane età dei protagonisti di allore è innegabile. Ed è innegabile il
fatto che i cambiamenti maggiori che esso produsse, se si eccettua il mutamento
radicale nella presa di coscienza generalizzata del ruolo paritario della
donna, furono a livello di costume. È questa, per esempio, la tesi della
monumentale sintesi dello storico britannico David Doggett, There’s a Riot
Going On. Revolutionaries, Rock Stars, and the Rise and Fall of the ‘60s
Counterculture (2007), che peraltro ha il difetto di ridurre tutto in
termini angloamericani e soprattutto di controcultura musicale, quasi che tutto
si riducesse a Bob Dylan, John Lennon (1940-1980) e ai Figli dei Fiori –
dimenticando peraltro la band alternativa per eccellenza, quella Plastic
People of the Universe, celebrata dal drammaturgo Tom Stoppard in Rock’n’Roll
(2006), che rappresentò la voce del dissenso praghese negli anni della
Primavera.
La distinzione
assoluta tra momento di creazione alternativa, in cui tutti “i
giovani” erano in fondo d’accordo nel voler cambiare il mondo, e la sua
degenerazione politica successiva, se è accettabile nel senso generale in cui
la utilizza la Meloni, è però praticamente inapplicabile ogniqualvolta si
analizzi nello specifico un momento o un luogo preciso. In Italia quel momento
“apolitico” se ci fu, fu rapidissimo, e la politicizzazione esplicita
del movimento fu pressoché immediata. Lo stesso dicasi della Francia e della
Germania, ma anche del Portogallo, della Spagna, della Grecia e della
Cecoslovacchia. Diverso il caso degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e del
Canada, dove si arrivò alla politicizzazione esplicita se non in rarissimi
casi, nonostante la durezza di alcuni scontri (Chicago, agosto 1968) e la
radicalizzazione di alcune comunità etniche (Black Panthers, American Indian
Movement, Chicanos, Weathermen, Irish Republican Army, Front de Libération
Québécois). Insomma, se allo storico (e a Giorgia Meloni) la rivoluzione
generazionale appare ormai come un trend facilmente generalizzabile e
identificabile nel tempo, non si dimentichi che per i protagonisti di allora la
realtà era molto più complessa.