
Il tempo-ostaggio tra potere giudiziario e nuda vita: il caso Berlusconi

14 Settembre 2021
Il trentennale calvario giudiziario del presidente Silvio Berlusconi, per riassumere il quale non basterebbe credo l’enciclopedia Treccani, ha sortito il solo effetto di una sentenza di condanna, produttiva di effetti distruttivi della vita personale e politica del presidente, definita con termini a dir poco crudi dallo stesso giudice estensore della sentenza, e la sospensione dalle attività pubbliche e politiche in base all’applicazione retroattiva di una norma (la legge Severino): retroattività che ripugna ad ogni ordinamento giuridico.
Non si tratta qui di valutare gli aspetti giuridici della vicenda: altri lo hanno fatto da anni in innumeri articoli. Non si può però sottacere la “mostruosità” di quel potere giudiziario che non solo si svincola dagli altri poteri dello Stato ma diventa esso stesso Stato nella misura in cui risulta caratterizzato dall’inclusione sempre più diretta della vita nell’ordine del potere.
E’, in fondo, la tesi di Giorgio Agamben: il rapporto tra il potere giudiziario (che si è, di fatto, nominato potere sovrano) e la nuda vita è un rapporto di cattura sulla base di una struttura di eccezione.
Il potere giudiziario, nella misura in cui concretizza l’ordine giuridico, deve conservare al contempo la possibilità di sospenderlo. In tal modo il potere giudiziario instaura al centro dell’ordinamento uno spazio di eccezione come possibilità di isolare in ogni soggetto una nuda vita: una vita irrimediabilmente esposta alla decisione giudiziaria che, in quanto tale, assicura al potere una presa diretta.
Lo stato di eccezione diviene quindi il rovescio della funzione garantistica della norma.
Nell’appello fatto da autorevoli personalità al Presidente della Repubblica ai fini di una doverosa riabilitazione del Presidente Berlusconi emerge però un altro tipo di lettura: e cioè la considerazione del tempo nella sua dimensione classica che stabilisce quale compensazione debba essere conferita a chi abbia subito una ingiustizia.
Il tempo, nella sua essenza ontologica, risulta elemento sia speculativo che operativo, tanto nella filosofia che nel diritto. Già il diritto romano conosceva l’istituto della “longi temporis praescriptio” la cui origine va rinvenuta in un istituto processuale greco (analogo alla exceptio romana) detto paragraphè: il nome paragraphè si tradusse poi nella romana praescriptio (l’odierna prescrizione).
Ma la suggestione del tempo richiamata dall’appello degli intellettuali (e dallo stesso intervento del presidente Berlusconi) trascende la civiltà giuridica di una prescrizione chiamata a correggere la “summa iniuria” di un processo (o di una persecuzione) espressione di un assolutismo etico giudiziario. Nel tempo il processo giudiziario viene alla luce in se stesso, in quanto eccezione che perdura, e tende in tal senso a diventare la regola e colui che nel processo è imputato diviene “l’homo sacer” che si mostra nella sua nudità di colui che, perduti i suoi diritti, può venir condannato arbitrariamente senza che ciò costituisca un vulnus giuridico.
In tale vicenda il tempo si ripresenta in tutta la sua immanenza quale lunga ed ininterrotta procedura di carattere figurativo prima ancora che concettuale.
Ma quale tempo?
Come brillantemente sostenuto da Umberto Curi (La morte del tempo), già il pensiero greco conosce due modi distinti per definire il tempo: da un lato esso è qualificato come aion, “il sempre essente”, la durata senza limiti che non ha né principio né fine, privo di passato e di futuro. Dall’altro lato esso è chronos, grandezza misurabile, forma temporale del divenire e del perire, che trasforma continuamente il presente e il passato e lo stesso futuro in passato.
Entrambi questi tempi, allusivi a due modalità nettamente diverse, in una certa misura contrapposte, di intendere il tempo, confermano l’inerenza del problema del tempo con l’interrogazione razionale delle vicende umane.
Già Anassimandro, nei pochi frammenti a noi pervenuti, pone nel tempo-chronos il baricentro teoretico della filosofia occidentale. La nascita e la morte degli enti, il civico compimento di una giustizia universale che reintegra l’unità originaria dissipata dalla molteplicità del divenire avvengono, infatti “kata ten tou chronou taxin” – e cioè secondo l’ordine del tempo -. Come lo stratega dispone le sue schiere per una battaglia dall’esito incerto ed imprevedibile, allo stesso modo il tempo-chronos regola mediante la taxis l’eterno andamento della vicenda cosmica, l’irreversibile processualità del divenire.
Nell’insieme lo scenario è quello della Curia di una polis ionica nella quale si “rende giustizia” – didonai diken -.
Assiso nel suo seggio, il tempo (chronos) stabilisce (tattei) quale compensazione (tisin) debba essere conferita a chi abbia subito una ingiustizia (adikia). Se uno dei contendenti abbia preso troppo dagli altri, e cioè dove si sia manifestato il vizio tra tutti più detestabile e cioè la pretesa maggiore di quanto legittimamente dovuto, il giudice disporrà in modo che si ristabilisca l’equilibrio restituendo il dovuto a colui cui era stato tolto. Ristabilendo quindi la connessione tra tempo e ordine.
E un atto di riabilitazione formale da parte del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella avrebbe una duplice valenza: quella del rifiuto di una magistratura etica dove il soggetto, la persona aprioristicamente individuata e catalogata dal potere giudiziario che si è fatto stato non abbia diritto più ad alcun tipo di garanzia o di statuto di diritti ma debba essere disumanizzata nel tempo per poter poi essere sacrificata mediante la condanna, e quella del rifiuto del tempo giudiziario quale “scaltrezza contorta” (e cioè il suo essere ankylo-metis) per restituirlo alla sua funzione di colui che “rende giustizia”.