Il tessile riprende a correre   grazie alla Cina

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Il tessile riprende a correre grazie alla Cina

07 Marzo 2007

Di recente discussione, ma di lunghissima data, il problema della competitività industriale del nostro paese sembra oggi giungere a una svolta. Il settore tessile, martire della sleale concorrenza d’oriente, fa oggi registrare segnali di salute importanti. La sua performance è di nuovo positiva, circa 10,2 miliardi di saldo commerciale, accompagnato da una crescita di settore che si attesta intorno all’1,8%. Tutto questo risulta essere in linea con l’andamento dell’economia del Belpaese, che sembra scrollarsi di dosso quel torpore che ci aveva ormai assuefatto. Ciò che colpisce è che lo fa nel settore che era divenuto l’emblema di quel torpore. Il settore tessile, si è detto molte volte in passato, è un settore maturo, saturo e particolarmente esposto alla concorrenza cinese.

“L’arte del migliorare le cose”, arte nella quale i cinesi eccellono, si presta molto ai prodotti del settore tessile e dell’abbigliamento. Gli imprenditori cinesi copiano i migliori perché quella è la base per incrementare le loro capacità . Questa “opera di ispirazione” ha riscontrato successo nei mercati internazionali, ovviamente supportata dal basso costo della manodopera cinese e dai numerosi sussidi governativi che Pechino ha elargito alle imprese tessili locali. Il distretto italiano, fucina del made in Italy, si è trovato strozzato tra l’alto costo del lavoro domestico e la mancanza di strumenti per difendere design e know-how esclusivo. La vittima del nuovo regime di concorrenza globale non è solo l’Italia: tutto il tessuto industriale europeo ne subisce le conseguenze. La levata di scudi a livello comunitario si materializzò in passato in dazi e barriere anti-dumping rivolte soprattutto verso l’impero del sol levante. La chiave di lettura di questo protezionismo rispolverato risiede nella volontà di dilatare i tempi di invasione dei prodotti cinesi e indiani nei mercati nostrani, garantendo alle imprese europee tempi di reazione più morbidi. Il problema è che le nostre imprese del tessile e dell’abbigliamento in passato hanno avuto ampi margini per riorganizzare le loro attività , relativamente riparate dalla concorrenza internazionale.

Il settore tessile è stato protetto sin dagli anni Settanta dall’ accordo “multifibre”, un sistema di quote bilaterali che colpiva gli export dei paesi in via di sviluppo, in palese violazione della normativa del Gatt. L’accordo fu pigramente esteso anno dopo anno fino al 1994 quando si decise di smantellarlo pur garantendo alle imprese un tempo di adattamento di 10 anni. La verità è come ripeteva spesso il professor Riccardo Faini è che il “protezionismo fossilizza il sistema produttivo”. L’argine alla marea cinese era fragile, temporaneo, creava un ambiente competitivo illusorio. A seguito della cosiddetta “terza fase dell’accordo tessile”, che ha prodotto la liberalizzazione di solo alcune categorie del tessile cinese sul finire del 2002, l’export del paese asiatico verso l’Italia è cresciuto del 46% in valore è del 188% in volume. La marea è esplosa e in meno di anno, i distretti del pratese e del biellese sono stati travolti. La competizione si è fatta aspra, il mercato è stato invaso da prodotti a prezzi molto bassi e solo ora le imprese hanno reagito. Hanno investito in nuove tecnologie, aumentato la qualità dei prodotti e hanno snellito l’organizzazione d’impresa spesso sfruttando la delocalizzazione nei paesi in via di sviluppo. Gli imprenditori più coraggiosi hanno intravisto tra le minacce della globalizzazione anche le possibilità che essa dischiude. Oggi l’industria cinese è in grado di copiare con estrema facilità il prodotto italiano di qualità e di venderlo sui mercati internazionali a prezzi stracciati, ma cosa impedisce all’impresa italiana di sfruttare a sua volta i fattori di vantaggio competitivo dei mercati asiatici? Perché non avvantaggiarsi del costo del lavoro cinese, o del know-how tecnico scientifico indiano, facendolo divenire la base di supporto per l’impresa italiana?

La retorica del prodotto di qualità che garantisce il successo dell’azienda è obsoleta, perché la qualità è ormai un fattore di competitività temporaneo. I margini di miglioramento dei prodotti delle imprese delle economie in via di sviluppo sono enormi. I prodotti coreani, malesiani, cinesi o tailandesi sono già di ottima qualità . L’accumulo tecnologico scientifico è disponibile a livello globale, non può più essere difeso. Ma “l’arte del migliorare le cose” ha un limite intrinseco: soffre della sindrome del sosia. Il sosia è uguale in tutto e per tutto, nelle movenze, nelle prestazioni, nei colori, fin nelle più piccole sfumature. Ma al sosia manca l’anima, il profumo, l’emozione. Questo è il vero fattore di competitività dell’impresa tessile e dell’abbigliamento italiana. Veste emozioni, ed esprime significati che vanno oltre i tessuti, le cuciture, e le lavorazioni. Gli imprenditori del biellese e del pratese questo l’hanno capito e si propongono per trasformare i distretti della qualità del tessile nella boutique del mondo.