
Il testo del discorso del Papa all’Assemblea delle Nazioni Unite

20 Aprile 2008
Signor Presidente
Signore e Signori,
nel dare inizio al mio discorso a questa Assemblea, desidero anzitutto
esprimere a Lei, Signor Presidente, la mia sincera gratitudine per le
gentili parole a me dirette. Uguale sentimento va anche al Segretario
Generale, il Signor Ban Ki-moon, per avermi invitato a visitare gli
uffici centrali dell’Organizzazione e per il benvenuto che mi ha
rivolto. Saluto gli Ambasciatori e i Diplomatici degli Stati Membri e
quanti sono presenti: attraverso di voi, saluto i popoli che qui
rappresentate. Essi attendono da questa Istituzione che porti avanti
l’ispirazione che ne ha guidato la fondazione, quella di un “centro per
l’armonizzazione degli atti delle Nazioni nel perseguimento dei fini
comuni”, la pace e lo sviluppo (cfr Carta delle Nazioni Unite, art.
1.2-1.4). Come il Papa Giovanni Paolo II disse nel 1995,
l’Organizzazione dovrebbe essere “centro morale, in cui tutte le
nazioni del mondo si sentano a casa loro, sviluppando la comune
coscienza di essere, per così dire, una ‘famiglia di nazioni'”
(Messaggio all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nel 50°
anniversario della fondazione, New York, 5 ottobre 1995, 14).
Mediante le Nazioni Unite, gli Stati hanno dato vita a obiettivi
universali che, pur non coincidendo con il bene comune totale
dell’umana famiglia, senza dubbio rappresentano una parte fondamentale
di quel bene stesso. I principi fondativi dell’Organizzazione – il
desiderio della pace, la ricerca della giustizia, il rispetto della
dignità della persona, la cooperazione umanitaria e l’assistenza –
esprimono le giuste aspirazioni dello spirito umano e costituiscono gli
ideali che dovrebbero sottostare alle relazioni internazionali. Come i
miei predecessori Paolo VI e Giovanni Paolo II hanno osservato da
questo medesimo podio, si tratta di argomenti che la Chiesa Cattolica e
la Santa Sede seguono con attenzione e con interesse, poiché vedono
nella vostra attività come problemi e conflitti riguardanti la comunità
mondiale possano essere soggetti ad una comune regolamentazione. Le
Nazioni Unite incarnano l’aspirazione ad “un grado superiore di
orientamento internazionale” (Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei
socialis, 43), ispirato e governato dal principio di sussidiarietà, e
pertanto capace di rispondere alle domande dell’umana famiglia mediante
regole internazionali vincolanti ed attraverso strutture in grado di
armonizzare il quotidiano svolgersi della vita dei popoli. Ciò è ancor
più necessario in un tempo in cui sperimentiamo l’ovvio paradosso di un
consenso multilaterale che continua ad essere in crisi a causa della
sua subordinazione alle decisioni di pochi, mentre i problemi del mondo
esigono interventi nella forma di azione collettiva da parte della
comunità internazionale.
Certo, questioni di sicurezza, obiettivi di sviluppo, riduzione delle
ineguaglianze locali e globali, protezione dell’ambiente, delle risorse
e del clima, richiedono che tutti i responsabili internazionali
agiscano congiuntamente e dimostrino una prontezza ad operare in buona
fede, nel rispetto della legge e nella promozione della solidarietà nei
confronti delle regioni più deboli del pianeta. Penso in particolar
modo a quei Paesi dell’Africa e di altre parti del mondo che rimangono
ai margini di un autentico sviluppo integrale, e sono perciò a rischio
di sperimentare solo gli effetti negativi della globalizzazione. Nel
contesto delle relazioni internazionali, è necessario riconoscere il
superiore ruolo che giocano le regole e le strutture intrinsecamente
ordinate a promuovere il bene comune, e pertanto a difendere la libertà
umana. Tali regole non limitano la libertà; al contrario, la
promuovono, quando proibiscono comportamenti e atti che operano contro
il bene comune, ne ostacolano l’effettivo esercizio e perciò
compromettono la dignità di ogni persona umana. Nel nome della libertà
deve esserci una correlazione fra diritti e doveri, con cui ogni
persona è chiamata ad assumersi la responsabilità delle proprie scelte,
fatte in conseguenza dell’entrata in rapporto con gli altri. Qui il
nostro pensiero si rivolge al modo in cui i risultati delle scoperte
della ricerca scientifica e tecnologica sono stati talvolta applicati.
Nonostante gli enormi benefici che l’umanità può trarne, alcuni aspetti
di tale applicazione rappresentano una chiara violazione dell’ordine
della creazione, sino al punto in cui non soltanto viene contraddetto
il carattere sacro della vita, ma la stessa persona umana e la famiglia
vengono derubate della loro identità naturale. Allo stesso modo,
l’azione internazionale volta a preservare l’ambiente e a proteggere le
varie forme di vita sulla terra non deve garantire soltanto un uso
razionale della tecnologia e della scienza, ma deve anche riscoprire
l’autentica immagine della creazione. Questo non richiede mai una
scelta da farsi tra scienza ed etica: piuttosto si tratta di adottare
un metodo scientifico che sia veramente rispettoso degli imperativi
etici.
Il riconoscimento dell’unità della famiglia umana e l’attenzione per
l’innata dignità di ogni uomo e donna trovano oggi una rinnovata
accentuazione nel principio della responsabilità di proteggere. Solo di
recente questo principio è stato definito, ma era già implicitamente
presente alle origini delle Nazioni Unite ed è ora divenuto sempre più
caratteristica dell’attività dell’Organizzazione. Ogni Stato ha il
dovere primario di proteggere la propria popolazione da violazioni
gravi e continue dei diritti umani, come pure dalle conseguenze delle
crisi umanitarie, provocate sia dalla natura che dall’uomo. Se gli
Stati non sono in grado di garantire simile protezione, la comunità
internazionale deve intervenire con i mezzi giuridici previsti dalla
Carta delle Nazioni Unite e da altri strumenti internazionali. L’azione
della comunità internazionale e delle sue istituzioni, supposto il
rispetto dei principi che sono alla base dell’ordine internazionale,
non deve mai essere interpretata come un’imposizione indesiderata e una
limitazione di sovranità. Al contrario, è l’indifferenza o la mancanza
di intervento che recano danno reale. Ciò di cui vi è bisogno e una
ricerca più profonda di modi di prevenire e controllare i conflitti,
esplorando ogni possibile via diplomatica e prestando attenzione ed
incoraggiamento anche ai più flebili segni di dialogo o di desiderio di
riconciliazione.
Il principio della “responsabilità di proteggere” era considerato
dall’antico ius gentium quale fondamento di ogni azione intrapresa dai
governanti nei confronti dei governati: nel tempo in cui il concetto di
Stati nazionali sovrani si stava sviluppando, il frate domenicano
Francisco de Vitoria, a ragione considerato precursore dell’idea delle
Nazioni Unite, aveva descritto tale responsabilità come un aspetto
della ragione naturale condivisa da tutte le Nazioni, e come il
risultato di un ordine internazionale il cui compito era di regolare i
rapporti fra i popoli. Ora, come allora, tale principio deve invocare
l’idea della persona quale immagine del Creatore, il desiderio di una
assoluta ed essenziale libertà. La fondazione delle Nazioni Unite, come
sappiamo, coincise con il profondo sdegno sperimentato dall’umanità
quando fu abbandonato il riferimento al significato della trascendenza
e della ragione naturale, e conseguentemente furono gravemente violate
la libertà e la dignità dell’uomo. Quando ciò accade, sono minacciati i
fondamenti oggettivi dei valori che ispirano e governano l’ordine
internazionale e sono minati alla base quei principi cogenti ed
inviolabili formulati e consolidati dalle Nazioni Unite. Quando si è di
fronte a nuove ed insistenti sfide, è un errore ritornare indietro ad
un approccio pragmatico, limitato a determinare “un terreno comune”,
minimale nei contenuti e debole nei suoi effetti.
Il riferimento all’umana dignità, che è il fondamento e l’obiettivo
della responsabilità di proteggere, ci porta al tema sul quale siamo
invitati a concentrarci quest’anno, che segna il 60° anniversario della
Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Il documento fu il
risultato di una convergenza di tradizioni religiose e culturali, tutte
motivate dal comune desiderio di porre la persona umana al cuore delle
istituzioni, leggi e interventi della società, e di considerare la
persona umana essenziale per il mondo della cultura, della religione e
della scienza. I diritti umani sono sempre più presentati come
linguaggio comune e sostrato etico delle relazioni internazionali. Allo
stesso tempo, l’universalità, l’indivisibilità e l’interdipendenza dei
diritti umani servono tutte quali garanzie per la salvaguardia della
dignità umana. È evidente, tuttavia, che i diritti riconosciuti e
delineati nella Dichiarazione si applicano ad ognuno in virtù della
comune origine della persona, la quale rimane il punto più alto del
disegno creatore di Dio per il mondo e per la storia. Tali diritti sono
basati sulla legge naturale iscritta nel cuore dell’uomo e presente
nelle diverse culture e civiltà. Rimuovere i diritti umani da questo
contesto significherebbe restringere il loro ambito e cedere ad una
concezione relativistica, secondo la quale il significato e
l’interpretazione dei diritti potrebbero variare e la loro universalità
verrebbe negata in nome di contesti culturali, politici, sociali e
persino religiosi differenti. Non si deve tuttavia permettere che tale
ampia varietà di punti di vista oscuri il fatto che non solo i diritti
sono universali, ma lo è anche la persona umana, soggetto di questi
diritti.
La vita della comunità, a livello sia interno che internazionale,
mostra chiaramente come il rispetto dei diritti e le garanzie che ne
conseguono siano misure del bene comune che servono a valutare il
rapporto fra giustizia ed ingiustizia, sviluppo e povertà, sicurezza e
conflitto. La promozione dei diritti umani rimane la strategia più
efficace per eliminare le disuguaglianze fra Paesi e gruppi sociali,
come pure per un aumento della sicurezza. Certo, le vittime degli
stenti e della disperazione, la cui dignità umana viene violata
impunemente, divengono facile preda del richiamo alla violenza e
possono diventare in prima persona violatrici della pace. Tuttavia il
bene comune che i diritti umani aiutano a raggiungere non si può
realizzare semplicemente con l’applicazione di procedure corrette e
neppure mediante un semplice equilibrio fra diritti contrastanti. Il
merito della Dichiarazione Universale è di aver permesso a differenti
culture, espressioni giuridiche e modelli istituzionali di convergere
attorno ad un nucleo fondamentale di valori e, quindi, di diritti. Oggi
però occorre raddoppiare gli sforzi di fronte alle pressioni per
reinterpretare i fondamenti della Dichiarazione e di comprometterne
l’intima unità, così da facilitare un allontanamento dalla protezione
della dignità umana per soddisfare semplici interessi, spesso interessi
particolari. La Dichiarazione fu adottata come “comune concezione da
perseguire” (preambolo) e non può essere applicata per parti staccate,
secondo tendenze o scelte selettive che corrono semplicemente il
rischio di contraddire l’unità della persona umana e perciò
l’indivisibilità dei diritti umani.
L’esperienza ci insegna che spesso la legalità prevale sulla giustizia
quando l’insistenza sui diritti umani li fa apparire come l’esclusivo
risultato di provvedimenti legislativi o di decisioni normative prese
dalle varie agenzie di coloro che sono al potere. Quando vengono
presentati semplicemente in termini di legalità, i diritti rischiano di
diventare deboli proposizioni staccate dalla dimensione etica e
razionale, che è il loro fondamento e scopo. Al contrario, la
Dichiarazione Universale ha rafforzato la convinzione che il rispetto
dei diritti umani è radicato principalmente nella giustizia che non
cambia, sulla quale si basa anche la forza vincolante delle
proclamazioni internazionali. Tale aspetto viene spesso disatteso
quando si tenta di privare i diritti della loro vera funzione in nome
di una gretta prospettiva utilitaristica. Dato che i diritti e i
conseguenti doveri seguono naturalmente dall’interazione umana, è
facile dimenticare che essi sono il frutto di un comune senso della
giustizia, basato primariamente sulla solidarietà fra i membri della
società e perciò validi per tutti i tempi e per tutti i popoli. Questa
intuizione fu espressa sin dal quinto secolo da Agostino di Ippona, uno
dei maestri della nostra eredità intellettuale, il quale ebbe a dire
riguardo al Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a
teche tale massima “non può in alcun modo variare a seconda delle
diverse comprensioni presenti nel mondo” (De doctrina christiana, III,
14). Perciò, i diritti umani debbono esser rispettati quali espressione
di giustizia e non semplicemente perché possono essere fatti rispettare
mediante la volontà dei legislatori.
Signore e Signori, mentre la storia procede, sorgono nuove situazioni e
si tenta di collegarle a nuovi diritti. Il discernimento, cioè la
capacità di distinguere il bene dal male, diviene ancor più essenziale
nel contesto di esigenze che riguardano le vite stesse e i
comportamenti delle persone, delle comunità e dei popoli. Affrontando
il tema dei diritti, dato che vi sono coinvolte situazioni importanti e
realtà profonde, il discernimento è al tempo stesso una virtù
indispensabile e fruttuosa.
Il discernimento, dunque, mostra come l’affidare in maniera esclusiva
ai singoli Stati, con le loro leggi ed istituzioni, la responsabilità
ultima di venire incontro alle aspirazioni di persone, comunità e
popoli interi può talvolta avere delle conseguenze che escludono la
possibilità di un ordine sociale rispettoso della dignità e dei diritti
della persona. D’altra parte, una visione della vita saldamente
ancorata alla dimensione religiosa può aiutare a conseguire tali fini,
dato che il riconoscimento del valore trascendente di ogni uomo e ogni
donna favorisce la conversione del cuore, che poi porta ad un impegno
di resistere alla violenza, al terrorismo ed alla guerra e di
promuovere la giustizia e la pace. Ciò fornisce inoltre il contesto
proprio per quel dialogo interreligioso che le Nazioni Unite sono
chiamate a sostenere, allo stesso modo in cui sostengono il dialogo in
altri campi dell’attività umana. Il dialogo dovrebbe essere
riconosciuto quale mezzo mediante il quale le varie componenti della
società possono articolare il proprio punto di vista e costruire il
consenso attorno alla verità riguardante valori od obiettivi
particolari. È proprio della natura delle religioni, liberamente
praticate, il fatto che possano autonomamente condurre un dialogo di
pensiero e di vita. Se anche a tale livello la sfera religiosa è tenuta
separata dall’azione politica, grandi benefici ne provengono per gli
individui e per le comunità. D’altro canto, le Nazioni Unite possono
contare sui risultati del dialogo fra religioni e trarre frutto dalla
disponibilità dei credenti a porre le propri esperienze a servizio del
bene comune. Loro compito è quello di proporre una visione della fede
non in termini di intolleranza, di discriminazione e di conflitto, ma
in termini di rispetto totale della verità, della coesistenza, dei
diritti e della riconciliazione.
Ovviamente i diritti umani debbono includere il diritto di libertà
religiosa, compreso come espressione di una dimensione che è al tempo
stesso individuale e comunitaria, una visione che manifesta l’unità
della persona, pur distinguendo chiaramente fra la dimensione di
cittadino e quella di credente. L’attività delle Nazioni Unite negli
anni recenti ha assicurato che il dibattito pubblico offra spazio a
punti di vista ispirati ad una visione religiosa in tutte le sue
dimensioni, inclusa quella rituale, di culto, di educazione, di
diffusione di informazioni, come pure la libertà di professare o di
scegliere una religione. È perciò inconcepibile che dei credenti
debbano sopprimere una parte di se stessi – la loro fede – per essere
cittadini attivi; non dovrebbe mai essere necessario rinnegare Dio per
poter godere dei propri diritti. I diritti collegati con la religione
%0Asono quanto mai bisognosi di essere protetti se vengono considerati in
conflitto con l’ideologia secolare prevalente o con posizioni di una
maggioranza religiosa di natura esclusiva. Non si può limitare la piena
garanzia della libertà religiosa al libero esercizio del culto; al
contrario, deve esser tenuta in giusta considerazione la dimensione
pubblica della religione e quindi la possibilità dei credenti di fare
la loro parte nella costruzione dell’ordine sociale. In verità, già lo
stanno facendo, ad esempio, attraverso il loro coinvolgimento influente
e generoso in una vasta rete di iniziative, che vanno dalle università,
alle istituzioni scientifiche, alle scuole, alle agenzie di cure
mediche e ad organizzazioni caritative al servizio dei più poveri e dei
più marginalizzati. Il rifiuto di riconoscere il contributo alla
società che è radicato nella dimensione religiosa e nella ricerca
dell’Assoluto – per sua stessa natura, espressione della comunione fra
persone – privilegerebbe indubbiamente un approccio individualistico e
frammenterebbe l’unità della persona.
La mia presenza in questa Assemblea è un segno di stima per le Nazioni
Unite ed è intesa quale espressione della speranza che l’Organizzazione
possa servire sempre più come segno di unità fra Stati e quale
strumento di servizio per tutta l’umana famiglia. Essa mostra pure la
volontà della Chiesa Cattolica di offrire il contributo che le è
proprio alla costruzione di relazioni internazionali in un modo che
permetta ad ogni persona e ad ogni popolo di percepire di poter fare la
differenza. La Chiesa opera inoltre per la realizzazione di tali
obiettivi attraverso l’attività internazionale della Santa Sede, in
modo coerente con il proprio contributo nella sfera etica e morale e
con la libera attività dei propri fedeli. Indubbiamente la Santa Sede
ha sempre avuto un posto nelle assemblee delle Nazioni, manifestando
così il proprio carattere specifico quale soggetto nell’ambito
internazionale. Come hanno recentemente confermato le Nazioni Unite, la
Santa Sede offre così il proprio contributo secondo le disposizioni
della legge internazionale, aiuta a definirla e ad essa fa riferimento.
Le Nazioni Unite rimangono un luogo privilegiato nel quale la Chiesa è
impegnata a portare la propria esperienza “in umanità”, sviluppata
lungo i secoli fra popoli di ogni razza e cultura, e a metterla a
disposizione di tutti i membri della comunità internazionale. Questa
esperienza ed attività, dirette ad ottenere la libertà per ogni
credente, cercano inoltre di aumentare la protezione offerta ai diritti
della persona. Tali diritti sono basati e modellati sulla natura
trascendente della persona, che permette a uomini e donne di percorrere
il loro cammino di fede e la loro ricerca di Dio in questo mondo. Il
riconoscimento di questa dimensione va rafforzato se vogliamo sostenere
la speranza dell’umanità in un mondo migliore, e se vogliamo creare le
condizioni per la pace, lo sviluppo, la cooperazione e la garanzia dei
diritti delle generazioni future.
Nella mia recente Enciclica Spe salvi, ho sottolineato “che la sempre
nuova faticosa ricerca di retti ordinamenti per le cose umane è compito
di ogni generazione” (n. 25). Per i cristiani tale compito è motivato
dalla speranza che scaturisce dall’opera salvifica di Gesù Cristo. Ecco
perché la Chiesa è lieta di essere associata all’attività di questa
illustre Organizzazione, alla quale è affidata la responsabilità di
promuovere la pace e la buona volontà in tutto il mondo. Cari amici, vi
ringrazio per l’odierna opportunità di rivolgermi a voi e prometto il
sostegno delle mie preghiere per il proseguimento del vostro nobile
compito.
Prima di congedarmi da questa illustre Assemblea, vorrei rivolgere il
mio augurio, nelle lingue ufficiali, a tutte le Nazioni che vi sono
rappresentate:
Pace e prosperità con l’aiuto di Dio!
Grazie molte!