Il Trattato di Lisbona al traguardo, ma il ‘dopo’ preoccupa l’UE
12 Febbraio 2008
Con il via libera dell’Assemblea nazionale francese il Trattato di Lisbona
segna un passo importante nel processo di ratifica che, a fine 2008, dovrebbe
concludersi con i 27 «sì». In realtà quello francese è il quinto voto positivo,
dopo la firma del Trattato modificativo del 14 dicembre 2007. Prima di Parigi
hanno ratificato Budapest, la
Slovenia, Malta e la Romania.
Il voto francese appare importante non solo perché il primo
di uno dei grandi Paesi dell’Ue, ma soprattutto perché Parigi, con il suo «no»
referendario del 29 maggio 2005, aveva portato alla luce del sole la grande
crisi della costruzione europea.
Il Presidente Sarkozy ha rispettato gli impegni assunti in campagna
elettorale. È stato infatti l’artefice, insieme alla Merkel, della ripartenza
europea e dell’elaborazione del nuovo testo e ha proseguito, come anticipato, tramite
ratifica parlamentare, rifiutandosi di proporre un altro pericoloso referendum.
Il passaggio parlamentare non ha mascherato le contraddizioni interne ai
socialisti, i quali non sono riusciti a trovare una linea comune sull’Europa e
sulle sue nuove modifiche costituzionali. Le incongruenze di fronte alle
tematiche europee sono arrivate al livello massimo quando il capogruppo
socialista all’Assemblea nazionale Ayrault ha, da un lato giudicato il Trattato
di Lisbona un compromesso «onorevole», ma dall’altro, per assecondare il fronte
del «no all’Europa liberale e di Sarkozy», ha criticato aspramente il governo e
la sua scelta di non passare per la ratifica referendaria, mentre tutti gli
indicatori mostrano che un referendum nell’attuale congiuntura di sfiducia e
crisi economica avrebbe catalizzato il malcontento dell’opinione pubblica
transalpina e condotto l’Ue ad un nuova impasse.
Passato indenne lo scoglio francese, il Trattato di Lisbona procede il suo
tragitto e all’orizzonte non sembrano in vista particolari trappole.
Praticamente tutti i Paesi hanno scelto di tenersi alla larga da complicati ed
imprevedibili referendum e solo in Irlanda, per motivi costituzionali, i
cittadini saranno chiamati ad esprimersi direttamente. Proprio da Dublino
giungono alcuni timori: l’opinione pubblica sembra totalmente disinteressata al
tema e se il referendum previsto per l’estate dovesse svolgersi oggi i «sì»
sarebbero il 25%, i «no» poco più del 15% e a dominare sarebbero gli indecisi,
circa il 60%. Guardare al passato non aiuta, dal momento che già nel 2001
Dublino aveva detto «no» al Trattato di Nizza per via referendaria. In una
Nazione che deve una buona parte della sua prepotente crescita economica
proprio all’Unione europea, un’euro-indifferenza di questo genere la dice lunga
sulla crisi di legittimità e fiducia che sta attraversando il progetto di
Europa unita.
Oltre al «rischio irlandese» l’altro possibile intralcio riguarda i tempi
entro i quali si completerà il processo di ratifica. Il Presidente Sarkozy
vorrebbe chiudere con il dicembre 2008, termine del semestre di Presidenza
francese, ma anche i dirigenti europei più ottimisti ritengono che sarà
difficile fare il pieno prima del giugno 2009. La Spagna (in piena campagna
elettorale) e la Svezia
non hanno ancora messo mano al dossier e lo stesso può dirsi dell’Italia, oggi
impegnata in ben altre questioni. In Slovacchia e nella Repubblica Ceca
dell’euro-scettico Klaus il clima non è certo dei migliori per parlare di
Europa, mentre l’asfittico Brown fatica a parare gli attacchi della stampa tabloid che reclama a gran voce un
referendum (improbabile) ma che si trasformerebbe nella tomba del nuovo
Trattato. In realtà a Bruxelles non disdegnano una conclusione del processo di
ratifica nel giugno 2009, dal momento che in questo modo si potrebbero far
coincidere il giro di nuove nomine (Presidenza del Consiglio europeo, Alto
Rappresentante e Presidenza della Commissione) con le elezioni del Parlamento
europeo.
Ma se dal piano delle istituzioni si passa a quello della concretezza
politica la situazione si fa spinosa. Uno dei passaggi più complicati sarà
quello dell’applicazione della cosiddetta «costituzione materiale dell’Europa»,
cioè ad esempio definire quale sarà il ruolo del Presidente del Consiglio
europeo, una volta completato il processo di ratifica. Si passerà dall’attuale
Presidenza a rotazione semestrale ad una nomina a maggioranza qualificata, da
parte dei Capi di Stato e di governo, per due anni e mezzo. Come si comporterà
questo Presidente «fisso» di fronte alle rotazioni semestrali che rimarranno in
vigore per i vari Consigli dei ministri con specifiche competenze (ad esempio
quello delle finanze o dell’agricoltura)? La questione è destinata a
complicarsi ancora di più dal momento che il Consiglio dei ministri degli
Affari Esteri avrà un suo presidente stabile, l’Alto Commissario per la Politica estera e di
difesa, così come l’Eurogruppo che già oggi possiede un Presidente stabile, nella
persona di Juncker.
Molto dipenderà dalle personalità politiche che andranno ad occupare
l’incarico di Presidente del Consiglio europeo e di Alto Rappresentante. Il
primo si accontenterà di svolgere il ruolo di organizzatore di maggioranze o
cercherà di fornire un vero e proprio profilo all’Unione europea sul
palcoscenico politico internazionale? Che tipo di rapporto si verrà a creare
tra lui e il responsabile della politica estera e di difesa?
La futura Ue, con le istituzioni previste dal Trattato di Lisbona a regime
solo completamente a partire dal 2017 (entro questa data saranno
definitivamente in vigore il voto a maggioranza qualificata in Consiglio e la
riduzione del numero dei commissari a 18) sarà di fatto retta da un triumvirato
composto da Presidente del Consiglio, Ministro degli Affari esteri (nonché
numero due della Commissione) e Presidente della Commissione.
La scelta di portare personalità di spicco all’interno di questo
triumvirato è certamente rischiosa, dato che potrebbe scatenare impulsi
competitivi potenzialmente paralizzanti. Lo è però altrettanto la decisione
opposta, quella di rivolgersi a grigi burocrati, garanzia di sopravvivenza, ma
allo stesso modo di irrilevanza internazionale. Lo ha compreso Tony Blair il
quale, in parte smentendo le voci che lo vorrebbero candidato alla Presidenza
dell’Unione, ha implicitamente aggiunto che una sua eventuale candidatura
sarebbe accompagnata da un preciso piano politico per il futuro dell’Europa.