Il vademecum del “costruttore”
03 Gennaio 2021
Alla fine della prima ondata il Premier Conte affermò che, potendo tornare indietro, avrebbe rifatto tutto senza modificare nulla delle sue scelte e dei suoi comportamenti. La sera dell’ultimo dell’anno, nel tradizionale messaggio presidenziale, Sergio Mattarella ha ammesso che si sarebbe potuto fare meglio e che, certamente, alcuni errori avrebbero potuto essere evitati.
A differenziare le due affermazioni non c’è soltanto il ruolo istituzionale, una diversa consapevolezza e una non comparabile esperienza politica. C’è anche il tempo che si è sedimentato e che ha reso non più eludibili alcune verità.
L’Italia, in base ai dati della John Hopkins University, al 18 novembre 2020, con oltre 75.000 morti si colloca al settimo posto nel mondo per numero assoluto di vittime nel corso della pandemia; nell’ambito dell’Unione solo Belgio e Spagna presentano consuntivi peggiori. Quanto alle variazioni del Pil a fine 2020, in base alle stime del Fondo Monetario Internazionale, il nostro -10,65% è superato nell’Unione dalla sola Spagna. Non è rassicurante neppure l’indice del deficit di bilancio: quel -12,98% basta da solo a dar conto delle preoccupazioni del ministro Gualtieri, perché durante le grandi crisi è necessario spendere ma non lo si può fare senza darsi limiti e confini. Soprattutto se parliamo di un Paese che nel rapporto tra debito e Pil, con il 161,8%, è sopravanzato a livello planetario dal solo Giappone. Infine, c’è un altro dato assai allarmante e questo non può essere tradotto in cifre: il danno istituzionale subìto. L’Italia in quest’ambito ha scontato un ritardo atavico nelle riforme strutturali che la necessità di affrontare una crisi improvvisa e imprevedibile ha convertito in ulteriori scompensi e forzature a volte insopportabili.
Qualche giorno fa il senatore del Pd Luigi Zanda, intervenendo in un surreale dibattito sul bilancio dello Stato compresso in poche ore per evitare l’esercizio provvisorio, ha affermato: “La gravissima crisi che stiamo vivendo ci dice che l’Italia soffre di punti di debolezza più rilevanti di quelli di Nazioni simili a noi ed egualmente toccate dal virus. Il nostro punto debole più serio è la fragilità dello Stato, la ridotta efficienza della macchina pubblica, l’inadeguatezza del quadro normativo e la debolezza del sistema politico”. Difficilmente il concetto avrebbe potuto essere espresso meglio.
A non voler essere catastrofisti, questo è lo scenario realistico nel quale sono chiamati a muoversi quei “costruttori” evocati da Mattarella la notte di fine anno.
Essi dovrebbero, in primo luogo, prendere atto che non siamo fuori dalla crisi. Il vaccino è certamente una buona notizia e una strada da praticare. Ma è una strada lunga e in salita. Dai dati sull’approvvigionamento è facile arguire che, se ci andrà bene, ne avremo per tutto il 2021. Nel frattempo, il computo delle vittime continuerà a crescere e la sanità ad essere sotto pressione.
In questa condizione è veramente imperdonabile che non sia stato utilizzato un fondo destinato unicamente a migliorare le condizioni del sistema sanitario. Soprattutto questa seconda ondata ha evidenziato che la crisi ha una natura innanzi tutto sanitaria. E se si considera che la spesa per la protezione sociale in Italia è di gran lunga superiore a quella del Belgio e della Spagna (gli unici due Paesi dell’Unione che ci precedono nella classifica del numero delle vittime), ci si rende conto di quanto sarebbe stato utile un fondo dedicato, speso in tempo e speso bene. Avrebbe portato a risparmiare vite umane e avrebbe prodotto anche vantaggi economici. Perché nessuno si chiede quanto ci avrebbe fatto guadagnare, in termini di Pil, evitare qualche settimana di “zona rossa” indotta dalla situazione delle strutture ospedaliere prim’ancora che dalla virulenza del virus?
Il Mes non è certamente la panacea. Ed è debito, come è in gran parte debito il Recovery. Sarebbe però stato utile, a giugno ancor più che oggi. E, nonostante tutto, anche oggi potrebbe aiutarci a uscire dalla crisi prima e con un bilancio sanitario migliore. Le grandi tragedie nazionali del passato avrebbero dovuto insegnarci che il numero dei morti non è una fredda statistica. E’ un prezzo morale che le nazioni pagano per decenni se non sono in grado di dimostrare con i fatti che quei morti non sono stati invano, traducendo una tragedia collettiva in coesione, consapevolezza, forza vitale.
Anche per questo, mentre si continua a gestire la crisi bisognerebbe pensare alla ripartenza. E in tal senso, per quanti non si attardano a considerare i retroscena di giornata, uno dei documenti più importanti che la politica abbia prodotto nelle ultime settimane è senz’altro l’intervista del Direttore di Repubblica Maurizio Molinari al Commissario Europeo Paolo Gentiloni, soprattutto nella parte in cui si discute dell’arrivo di quei fondi comunitari senza i quali i “costruttori” di destra, di sinistra o di centro non potrebbero neppure mettersi all’opera.
Per una volta Gentiloni non le ha mandate a dire. Ha con chiarezza affermato che i soldi del Recovery, per il nostro Paese, sono gravati da alcune “condizionalità”. Condizioni di tempo, innanzi tutto, perché siamo in ritardo e questo ritardo diventerà incolmabile se non arriveremo alla metà del 2021 – quando le scelte saranno definitivamente fatte – senza aver svolto i compiti dovuti. La partita del tempo, insomma, sarebbe ancora recuperabile, ma non possiamo permetterci di perderne altro.
C’è poi una condizione posta dall’Europa che investe i contenuti del progetto d’impiego dei fondi: essi debbono riguardare investimenti e riforme; non possono limitarsi agli incentivi né possono concernere misure tese alla conquista di “consensi effimeri”.
Infine, il requisito più arduo da soddisfare: quello relativo all’esecuzione del programma. Servono strutture ad hoc e riforme che consentano l’assorbimento dei soldi stanziati. La nostra impalcatura burocratica e istituzionale non garantisce che le risorse che riceveremo vengano effettivamente “assorbite”. In Europa siamo penultimi per capacità d’utilizzo dei fondi europei e, se dovessimo confermare tale performance, i finanziamenti verrebbero bloccati dopo il primo semestre, privandoci della possibilità di proseguire nella costruzione.
Insomma, ce ne era abbastanza perché l’intervista di Gentiloni suscitasse una grande eco, innanzitutto in seno alla maggioranza. Invece è passata sotto silenzio. Segno eloquente e ulteriore che, in quei paraggi, c’è tanta gente che considera il Recovery una grande finanziaria spalmata su cinque anni, ma si intravedono pochi costruttori.
Per questo, è bene che il dibattito sul futuro del governo continui ad essere un dibattito interno all’attuale maggioranza, e che nessuno si presti ad essere utilizzato come massa di manovra per permettere alla maggioranza di non fare i conti con la propria inadeguatezza.
Se ci è consentito un consiglio non richiesto al Presidente Conte, è quello di provare ad affrontare l’immane compito per quello che è, senza illudersi che il soccorso di qualche parlamentare compiacente possa evitare il confronto con la realtà, perché così i problemi verrebbero solo rinviati.
Noi, in ogni caso, abbiamo altri compiti e altre priorità: lavorare sodo dall’opposizione per farci trovare pronti quando il tempo dei costruttori potrà effettivamente inverarsi.