Il vero dramma di Monicelli è che il “suo mondo” era finito da un pezzo
05 Dicembre 2010
Diciamolo subito, a scanso di equivoci. Mario Monicelli è stato un grande regista. Forse il più grande regista italiano di commedie. Basterebbero solo “I soliti ignoti” (1958) e “La grande guerra” (1959) per passare alla storia della commedia nazionale. Non per Monicelli. Si deve ricordare “L’armata Brancaleone” (1966) e “La ragazza con la pistola” (1968).
Ma non basta. Monicelli la butta sul ridere e realizza due capolavori sull’Italia degli anni Settanta, segnata da goffi quanto fantomatici, pur se onnipresenti, tentativi “golpisti” (“Vogliamo i colonnelli”, 1973), e da scontri generazionali-sentimentali-ideologici-sindacali-femministi (il mai troppo apprezzato “Romanzo popolare”, sul triangolo tra l’attempato sindacalista meneghino Ugo Tognazzi, la giovane moglie Ornella Muti, troppo giovane per non piacere al giovane poliziotto meridionale Michele Placido: il tutto sullo sfondo della fabbrica, con musiche di Enzo Jannacci e supervisione ai dialoghi in gergo milanese di Beppe Viola). E si potrebbe chiudere, spedendo dritto diritto Monicelli nel lato più accogliente del Paradiso della settima arte.
Ma non è finita. Che dire di “Amici miei” (1975)? Si dirà: era un film di Germi, che non poté ultimare. Bene: “Un borghese piccolo piccolo” (1977)? L’Italia aggredita, colpita la cuore dalla cieca violenza metropolitana. Alberti Sordi, l’italiano più mite che sia esistito, decide di reagire. E che dire delle soavi risate romanesche de “Il marchese del Grillo” (1981)? Non è ancora finita. “Speriamo che si femmina” (1986) è l’ultima grande perfomance di Monicelli. Lo dirige con lievità e grazie un settantenne. Poi basta. La carriera di Monicelli si sarebbe dovuta fermare lì. Invece si prolunga di venticinque anni, segnati da progetti improbabili, fiaschi clamorosi, sino all’ultimo “Le rose del deserto” (2006).
Meglio non parlarne. Dimenticare. Monicelli ha rappresentato quanto di meglio il cinema italiano abbia saputo realizzare. Poi non ha avuto il coraggio di chiudere. Il mondo di Monicelli era terminato. Come quello di Alberto Sordi. L’uscita di scena, per qualsiasi vita è un dramma. Figuriamoci per una vita di artista che ha corso a perdifiato. Non c’era più il mondo di Monicelli. Né quello di Ettore Scola, di Lina Wertmüller, di Francesco Rosi, di Giuliano Montaldo. Ad un certo punto non ci furono più film da girare per John Ford. Il pubblico era svanito nel nulla, disposto a vedere un suo western solo in televisione, non più nella sala cinematografica. Perché lo stesso non doveva valere per Carlo Lizzani o Citto Maselli? Sopravvivere non è stato un bene. Cosa si potrà mai scrivere di “Rossini! Rossini!” (1991) e “Facciamo paradiso” (1995)? Che furono diretti da Monicelli. Come? Meglio sorvolare.
Negli ultimi tempi Monicelli era diventato particolarmente severo con la politica. Lamentava soprattutto l’insensibilità della politica verso il cinema, ed era sempre pronto a difendere la cittadella assediata dai tagli di bilancio. Concita De Gregorio, in un impeto di audacia, l’altro giorno ricordando Monicelli sull’Unità scriveva: "I ragazzi di Roma hanno occupato i binari della Stazione Termini, ci sono saltati sopra gridando ‘Branca branca branca, leon leon leon’. Ridevano tutti: erano giovani, più o meno come te, arrabbiati e felici".
Monicelli non era giovane, né felice. Aveva buone ragioni per essere arrabbiato. Non era giovane perché il tempo gli aveva portato via l’intelligenza e la forza di realizzare grandi film, commedie o meno. Non era giovane perché si era arroccato nella difesa di un cadavere (il cinema italiano) impossibile da rianimare. Trent’anni fa (esattamente nel 1977) il giovane baffuto e capelluto, ma già incazzato e pungente quanto mai, Nanni Moretti, ebbe un duello televisivo con Monicelli (il programma si chiamava “Match”). Il padre nobile della commedia all’italiana, in giacca sportiva verde, al cospetto dell’acerba, irruenta e geniale speranza del cinema italiano. Moretti fu chiaro: a casa i vecchi. Monicelli fu altrettanto chiaro: manco per il cavolo. Sarebbe stato meglio un passaggio di testimone generazionale. Ma non ci fu. E questo è stato il dramma del cinema italiano. Moretti aveva ragione: non nella forma, ma nella sostanza.
È spiacevole dover ricordare che un grande talento come Monicelli dalla fine degli anni Settanta ha girato film non entusiasmanti, mai all’altezza delle sue capacità. Ma è la verità. Pura e semplice. E ha sbagliato ad occuparsi di politica, così come sbaglia Moretti. Il cinema è la politica, poiché quando è grande schianta tutto, sbaraglia tutto e sopravvive a tutto. Pensate che Monicelli sarà ricordato per le recenti invettive o per la banda di disgraziati rapinatori de “I soliti ignoti”? Pensate che Nanni Moretti sarà ricordato per “Il caimano” o per “Ecce bombo”?