Il vero profitto dipende dall’abilità dell’imprenditore
24 Maggio 2007
A segnare in modo indelebile il dibattito su etica ed economia o, quanto meno, ad esprimere una visione d’impresa le cui implicazioni rinviano e investono un largo spettro di concezioni sulla politica e in generale sulla dimensione civile del vivere comune è stato il saggio di Milton Friedman Il monopolio e la responsabilità sociale degli imprenditori e dei lavoratori.
In questo importante saggio, il premio Nobel per l’economia sostiene una tesi tanto semplice quanto a parere di alcuni semplicistica ed eccessivamente sbrigativa. Scrive Freedman: “… l’imprenditore ha una sola responsabilità sociale: quella di usare le risorse a sua disposizione e di impegnarsi in attività dirette ad accrescere i profitti sempre con l’ovvio presupposto del rispetto delle regole del gioco, vale a dire dell’obbligo di impegnarsi in una aperta e libera competizione, senza inganno e senza frode. Parimenti, la responsabilità sociale dei dirigenti dei sindacati è semplicemente quella di servire gli interessi dei loro associati”.
La secca dichiarazione di Friedman voleva essere una risposta a una tendenza che nei primi anni sessanta si andava via via consolidando, in forza della quale in capo ai dirigenti delle aziende e dei sindacati vi sarebbe una responsabilità sociale che andrebbe ben oltre la “mera responsabilità e abilità funzionale”, tese al raggiungimento degli obiettivi dichiarati e agli interessi espressi dagli azionisti. All’origine di una tale tendenza, secondo Friedman, ci sarebbe un generale fraintendimento del carattere e della natura dell’economia libera.
Sulla stessa lunghezza d’onda si sintonizza il saggio di Peter Wallison, Senior Fellow dell’America Enterprise Institute, pubblicato nel numero maggio-giugno 2007 di “The American”. Secondo Wallison le imprese sarebbero tra le istituzioni maggiormente fraintese nel moderno contesto sociale. “Persone giuridiche artificiali, riconosciute dai governi, con caratteristiche speciali, tese al perseguimento di obiettivi meramente economici, le società per azioni rappresentano una delle innovazioni giuridiche di maggior successo che siano mai state inventate”.
Ciò che distingue le imprese come le società per azioni da altre istituzioni è la loro responsabilità limitata. Il che significa che per legge gli azionisti non saranno responsabili dei debiti eventualmente contratti dalla società. Scrive Wallison: gli azionisti rinunciano a gestire l’impresa e in cambio la loro responsabilità personale non sarà confusa con quella della società.
Fino alla metà del diciannovesimo secolo, prima che si diffondesse la forma giuridica della società a responsabilità limitata, gli investitori erano considerati responsabili per i debiti contratti dalle società, e queste ultime erano costrette a chiudere qualora uno o più investitori decidessero di ritirare il loro capitale. Oggi un’impresa prospera sopravvive ai suoi fondatori e virtualmente potrebbe non morire mai.
Data una simile premessa, che cosa possiamo dire sulla diffusa opinione che considera il fine dell’impresa la costruzione di rapporti stabili e duraturi con la comunità degli stakeholder? Una simile affermazione poggia su una problematica interpretazione in merito al fine, alla natura e alla funzione imprenditoriale.
A tal proposito sottolinea Wallison, sotto il profilo squisitamente formale, il dovere del consiglio di amministrazione è quello di fare gli interessi della società, non gli interessi degli azionisti. L’assunto è che se la società ha successo, anche gli azionisti ne godranno i benefici. In tal senso, per Wallison gli azionisti assomiglierebbero più alla figura del fiduciario di un fondo, piuttosto che al proprietario di un “pezzo” di società. Lo sviluppo conosciuto dall’impresa moderna non ha nulla di casuale; la tesi di Wallison è che l’impresa si sia potuta sviluppare perché è riuscita nell’intento di creare valore economico, centralizzando l’autorità operativa e le scelte sull’impiego del capitale sociale in un consiglio di amministrazione, distinto dall’assemblea dei soci. Come ha sostenuto anche Henry Manne: “La moderna società per azioni è una creazione del mercato, non della politica”.
Secondo la più classica delle formulazioni della teoria degli stakeholder, formulata da Evan e Freeman l’impresa dovrebbe essere gestita a vantaggio dei suoi stakeholder: i clienti, i fornitori, gli azionisti, gli impiegati e la comunità locale. Devono essere garantiti i diritti di questi gruppi, e, inoltre, tali gruppi devono partecipare alle decisioni che coinvolgono il loro benessere. Una versione per così dire più ingenua della teoria degli stakeholder è espressa in modo paradigmatico dal seguente brano di Hans Burckart: “Si potrebbe dire che l’azienda deve per un momento “dimenticare” se stessa e mettersi nella pelle di tutti i suoi ‘stakeholders’, di tutti i gruppi, cioè, con i quali sostiene uno scambio vitale”.
La tesi principale contro le stakeholders theories, e che in un certo senso tutte le comprende, si basa sullo scetticismo nei confronti di un’ipotesi di responsabilità in senso lato che finisce per coinvolgere tutti coloro che subiscono in modo indiretto i riflessi delle decisioni delle aziende: chi in teoria è responsabile di tutto nei confronti di tutti, in pratica, rischia di non essere responsabile di niente nei confronti di alcuno. Entrando nello specifico della questione aziendale, Kenneth Goodpaster ha sostenuto che le teorie degli stakeholder sarebbero portatrici di un approccio che determina un netto dualismo tra etica ed affari. Questo fenomeno, chiamato da Goodpaster Stakeholder Paradox, se da un lato evidenzia la necessità di andare oltre le considerazioni di natura strategica a favore di quelle di tipo multi-fiduciarie, dall’altro sottolinea l’ambiguità di un metodo che rischia di non tenere in giusta considerazione il dovere fiduciario che lega il management alla proprietà, che è essenzialmente una promessa di “massimizzazione del profitto”. Il paradosso risiede nel fatto che, poiché il dirigente dovrebbe “dimenticarsi” dell’azienda per la quale lavora, l’apprezzamento etico nei confronti della gestione manageriale potrebbe entrare in conflitto con il compito per il quale il manager è stipendiato dal suo datore di lavoro: gli azionisti. Per questo motivo, Goodpaster suggerisce un ulteriore approccio che scaturisce dalla consapevolezza che le responsabilità dei manager nei confronti degli azionisti sono solo una parte delle obbligazioni che ci attendiamo che gli stessi azionisti onorino nell’esercizio dei loro diritti – bisogna ampliare contemporaneamente la domanda di eticità tanto della comunità quanto degli azionisti: “Gli investitori non possono aspettarsi dai managers un comportamento che sia incoerente con la ragionevole aspettativa etica della comunità”.
Dal nostro punto di vista concordiamo con la posizione di chi, pur sostenendo la necessità di una elaborazione teorica che tenga conto di una nozione d’impresa ampia e pluridimensionale – aperta alla dimensione partecipativa – non trascuri la realtà che l’impresa, in ultima analisi, è un’unità produttiva assimilabile alla capacità degli imprenditori e dei dirigenti di porre in essere un’organizzazione del lavoro produttivo. È interessante notare come Pio XII cogliesse con chiarezza tale esigenza: In una comunità di persone tutte le relazioni sono governate dalla giustizia distributiva […] mentre nella società economica in quanto tale, le relazioni sono in primo luogo quelle di scambio e, di conseguenza, sono soggette alla giustizia commutativa”. “Sbaglierebbe chi affermasse che ogni singola impresa, per sua stessa natura, è una società, cosicché le relazioni tra coloro che hanno a che fare con essa dovrebbero essere regolate dalla giustizia distributiva e tutti, senza alcuna distinzione – che si tratti dei proprietari dei mezzi di produzione o meno –, avrebbero diritto alla propria parte di proprietà o, almeno, del profitto dell’impresa”.“Nei limiti della legge, i proprietari dei mezzi di produzione, tanto che siano persone private, cooperative di produttori, o fondazioni, dovrebbero sempre poter prendere le proprie decisioni economiche”.
La risposta che la teoria degli stakeholder propone a questo problema è la ridefinizione del fine e della funzione imprenditoriale, spostando l’accento dall’elemento economico a quello politico. Il fine dell’impresa in un mondo di ricchezza data, dunque, non dovrebbe essere più la massimizzazione del profitto, bensì la costruzione di rapporti favorevoli, stabili e duraturi con gli stakeholder. A parte la genericità dell’affermazione, l’impresa smetterebbe di essere in primo luogo un’unità produttiva di ricchezza. La critica a questa impostazione è tutta di natura economica. In primo luogo, la ricchezza non è un dato, un elemento statico; l’impresa non svolge la funzione di distribuzione, bensì di creazione della ricchezza. Il profitto dell’imprenditore non è una quota sottratta alla ricchezza data, non è, in pratica, una fetta della torta consegnataci una volta per tutte. L’autentico profitto imprenditoriale è quanto di nuovo (di inesistente) l’imprenditore ha saputo creare attraverso la sua abilità di porre in essere un’organizzazione del lavoro produttivo, dopo aver onorato tutti i contratti stipulati con le parti che costituiscono l’impresa.