Il vitalizio ai parlamentari non è una pensione ma rischia di diventarlo
02 Dicembre 2011
Il vitalizio dei parlamentari? Proviamo a spiegarne il significato. La decisione che i presidenti delle Camera – con la partecipazione straordinaria e del tutto fuori luogo del ministro “tecnico” del lavoro – hanno commesso sui vitalizi dei parlamentari è sfondone costituzionale che ha pochi precedenti e che dimostra il dilettantismo istituzionale di questi tempi.
Intendiamoci bene. È ovvio che se si chiederà a tutti quanti di contribuire a quel velleitario tentativo di colmare con il denaro degli italiani il grande buco nero chiamato bilancio dello Stato (dove la materia prodotta dal lavoro, il denaro, si trasforma nell’antimateria della spesa pubblica, il debito), i primi che dovranno mettere del loro sono quelli che decidono per tutti, cioè i membri del Parlamento.
Esistono però molti modi per farlo che non scassino ulteriormente i già scassati principi della democrazia parlamentare. Chiamiamo allora le cose con il loro nome. E diciamo a voce alta che il vitalizio dei parlamentari non è una pensione. Perché se così fosse sarebbe peggio che un privilegi. Il vitalizio dei parlamentari, invece, ha significato – nella storia di tutti parlamenti – una garanzia della libertà e dell’indipendenza del parlamentare. Cosa intendo dire? Facciamo un esempio.
Supponiamo che il deputato Giorgio Stracquadanio, di mestiere giornalista e dal 2006 parlamentare, organizzi una battaglia politica per l’abolizione dell’ordine dei giornalisti e la soppressione di tutti i contributi pubblici ai giornali, che giungono non solo ai famigerati quotidiani di partito, ma a tutte i quotidiani in edicola, chi più chi meno. Tanto che esiste un sottosegretario alla presidenza del consiglio che distribuisce questi soldi, e nel governo “tecnico” si chiama Carlo Malinconico e di mestiere, fino a un minuto prima di entrare a Palazzo Chigi faceva il presidente della FIEG, cioé la Federazione Italiana Editori Giornali, visto che in questo governo non ci sono conflitti di interesse…
Andiamo avanti con il nostro esempio. Giorgio Stracquadanio vince quelle due battaglie (che peraltro andrebbero fatte davvero perché sacrosante), Malinconico lascia il governo perché non ha più niente da distribuire e tutti i dirigenti nazionali e regionali dell’ordine dei giornalisti sono costretti a tornare a lavorare, visto che non possono più campare alle spalle dei loro colleghi che spendono circa 100 euro l’anno per rinnovare la loro “patente” di giornalista.
Ebbene, cari lettori: pensate che il deputato che ha tolto questi privilegi intollerabili ai suoi colleghi e agli editori dei giornali, nel momento in cui lasciasse il Parlamento (per qualsiasi ragione) troverebbe facilmente lavoro in un giornale, alle dipendenze di un editore a cui ha tolto una provvidenza pubblica spesso grassa e immeritata? Probabilmente no.
Ed è per questo che viene istituito storicamente il vitalizio. Per togliere qualsiasi condizionamento che i “padroni delle ferriere” potessero esercitare con la minaccia di lasciare morire di fame senza lavoro quel battagliero deputato che avesse organizzato le lotte operaie. Tanto che il vitalizio del parlamentare fu una conquista della sinistra, per rendere possibile l’elezione degli operai e vincere la paura dei padroni.
Evidentemente i tempi sono cambiati. E, in Italia, i parlamenti che si sono succeduti nel tempo hanno cominciato a fare confusione e a pensare da corporazione. Così quella garanzia di libertà è diventata una pensione da privilegiati anche nei pensieri di deputati e senatori. E siccome il privilegio immotivato porta con sé un senso di colpa un po’ codino, si sono introdotte via via modifiche dettate dall’ipocrisia, che come è noto è l’omaggio che il vizio rende alla virtù.
Così si sono introdotti via via piccole correzioni all’istituto, prevedendo che ci fosse una età minima a cui percepirlo, un minimo di anni di mandato e così via: Fino a trasformarlo in una autentica ruberia del potere e, cosa più grave, a considerare il mandato parlamentare come un impiego para- pubblico, ultima aberrazione istituzionale di massa.
Il mandato parlamentare non è un lavoro impiegatizio e nemmeno una carriera in aziende chiamate Camera e Senato. E non va trattato come se fosse questo.
Anzi, quando agli inizi della crisi della cosiddetta Prima Repubblica si sosteneva che non si potevano avere in Parlamento sempre gli stessi, che il popolo era stanco di una oligarchia che attraverso il sistema dei partiti e il controllo clientelare del voto di preferenza riusciva a riprodursi inalterata, non si pensò a un degli effetti del ricambio.
E cioè che se, come è accaduto dal 1994 ad oggi, in ragione delle leggi elettorali maggioritarie, ad ogni elezioni i nuovi deputati e senatori sono almeno la metà degli eletti, si sarebbero creati un numero molto più ampio di ex-parlamentari, percettori del vitalizio. Mentre prima, quando deputati e senatori erano sempre gli stessi e restavano in Parlamento ben oltre il limite dell’età di pensione, non appariva affatto scandaloso che essi percepissero quel privilegio chiamato vitalizio. In fondo, se Oscar Luigi Scalfaro è entrato in Parlamento nella prima legislatura ed è stato rieletto fino a quando non è andato al Quirinale, si sarà ben meritato la pensione, pover’uomo?
Ecco questi sono i paradossi che si verificano quando al popolo si vuol far credere che siamo tutti uguali e tutti dovremmo avere lo stesso per obbligo statale. Così, quando era in voga la vulgata marxista del ’68, il privilegio da abbattere era quello del padrone (e c’era anche chi diceva che in fondo era colpo loro perché, scandalo nello scandalo, compravano bei gioielli e automobili di lusso), mentre oggi – quando la colpa dei mali del mondo è dei politici – i privilegi da abbattere sono esclusivamente le garanzie di libertà nel mandato parlamentare.
È una subcultura qualunquista ed egualitaria – a cui ha dato il suo contributo anche il movimento berlusconiano con alcune teorie espresse e alcuni metodi di selezione dei parlamentari – che oggi domina e che ha messo sotto scacco un Parlamento che si vergogna di essere tale. Non c’è tempo per costruire una nuova dignità istituzionale. Vale allora la pena di cavalcare la tigre a pelo, correndo tutti i rischi.
Decidiamo, sia vero o no, che la nostra civiltà abbia ripudiato la ritorsione dal suo agire economico e civile e, – per riprendere l’esempio del deputato Stracquadanio che da giornalista divenuto parlamentare abolisce i privilegi della casta giornalistica e la regalia pubblica a giornali che altrimenti non starebbero in piedi. E diciamoci certi che più di un giornale sarebbe pronto, anzi desideroso, di assumere e ben pagare l’ex deputato Giorgio Stracquadanio.
In questo caso quella garanzia di libertà non occorre più e allora la aboliamo del tutto e versiamo ai deputati e ai senatori i contribuiti che essi versavano alla cassa di previdenza a cui risultano iscritti il giorno della elezione. Così che l’elezione non sia un danno per le persone.
Rifiutiamo però, con tutte le nostre forze, l’adozione del metodo contributivo specifico della cassa dei parlamentari, cose se – invece che temporanei rappresentanti elettivi del popolo – fossimo impiegati della Agenzia delle Uscite visto che, alla fine, l’unica cosa che rischiamo di fare è prendere soldi dalle tasche di alcuni italiani per riversarli nel gorgo della crescente spesa pubblica, cioè nelle tasche di altri italiani più furbi che sono riusciti a trasformare in un diritto la loro pretesa di vivere sulle spalle del lavoro altrui e hanno gettato tutte le colpe addosso a quei babbei che li hanno nutriti, pasciuti e carezzati: i parlamentari.