Il western extraterrestre era una buona idea che non ha funzionato

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Il western extraterrestre era una buona idea che non ha funzionato

15 Ottobre 2011

Allo scrittore argentino Jorge Luis Borges, come è noto, difettava la vista. Ma al cinema, dove si recava con frequenza in Argentina negli anni Trenta del Novecento, critico cinematografico per la rivista «Sur», nel buio della sala riuscì a percepire una grande verità. Nel tempo in cui i poeti avevano dimenticato la loro origine epica, il western hollywoodiano l’aveva ritrovata. Gli eroi dell’Olimpo della mitologia greca, ai quali non credeva più nessuno, si stavano di nuovo materializzando sullo schermo, con la pistola in una mano e la Bibbia nell’altra. Negli uomini, attraverso la magia dello schermo, stava tornando la fiducia per gli eroi. Il western classico diventò lo scenario e la narrazione della nuova mitologia. Poi il tempo determinò la morte anche di questi eroi di celluloide.

Lo scetticismo si portò via persino il padre Zeus, John Wayne. Nel 1970 uscivano a poca distanza uno dall’altro “Un uomo chiamato cavallo” di Elliot Silverstein, “Soldato blu” di Ralph Nelson e “Piccolo grande uomo” di Arthur Penn. Il punto di vista si era spostato dai colonizzatori (trasformati da buoni in cattivi) ai colonizzati (i pellerossa). Il «revisionismo progressista», gravido di buone intenzioni, doveva essere una iniezione di sangue fresco e verità. Si rivelò invece un’iniezione letale. Il funerale vero e proprio al western fu celebrato dieci anni dopo, con “I cancelli del cielo” di Michael Cimino. Un fallimento totale, estetico ed economico. Nei trent’anni successivi l’encefalogramma è rimasto costantemente piatto. Solo qualche sussulto, come nel caso di “Balla coi lupi” (1990) di Kevin Costner (per ottenere più o meno gli stessi incassi c’è voluto vent’anni dopo “Il Grinta” dei fratelli Coen). Di tornare gli eroi proprio non ne volevano sapere.

Poi, come l’Araba Fenice, nel rimescolamento della mitologia hollywoodiana, ne sono nati di nuovi. A partorirli è stato il mondo del fumetto trasferitosi al cinema. E proprio all’universo del fumetto viene chiesto di far tornare il western a volare. Steven Spielberg ha prodotto “Cowboys & Aliens”, per la regia di Jon Favreau (ha già diretto “Iron Man” I e II), un film a grande budget (costato 160 milioni di dollari) finanziato da Universal Pictures, DreamWorks SKG e Paramount Pictures. Il western nel cinema contemporaneo ha subito rare, rarissime  ibridazioni. È rimasto un genere puro, refrattario a commistioni e annacquamenti. Invece “Cowboys & Aliens” è il mescolamento del western con la fantascienza. L’idea di far convivere nel fumetto pistoleri e creature piovute dal cielo è venuta al genio delle strisce disegnate Scott Mitchell Rosenberg, che subito ha intuito le potenzialità cinematografiche della storia.

L’ambientazione di “Cowboys & Aliens” è classica: fine Ottocento, Absolution, piccola cittadina con case di legno, saloon e ufficio dello sceriffo. Un uomo privo di memoria si risveglia improvvisamente. Non capisce dove si trova. Viene da un altro mondo, è privo anche del nome. L’alieno vestito da cowboy è interpretato da Daniel Craig, l’attuale 007. In apparenza è come tutti gli altri, tranne l’aver attaccato al polso un misterioso bracciale, che emette strani segnali e sprizza una luce azzurrina. Come ogni western che si rispetti la piccola cittadina è sempre dominata da un cattivo, spesso protetto dall’autorità della legge. Assolve a questa funzione il colonnello Dolarhyde (Harrison Ford), scostante veterano della Guerra Civile (come lo era John Wayne nel western per eccellenza, “Sentieri selvaggi” di John Ford). Una volta attaccavano gli indiani, i banditi, i messicani, la cavalleria con l’uniforme blu. Adesso attaccano gli extraterrestri.

La disperata difesa dall’invasione aliena sarà condotta dunque da un’accoppiata di ferro, praticamente imbattibile: il giovane Daniel Craig (James Bond) e il vecchio Harrison Ford (Indiana Jones). Però per vincere la partita, visto che siamo in tempi politicamente corretti, c’è bisogno anche del contributo, di non poco conto, del sesso femminile (Olivia Wilde). Il fumetto su grande schermo gode attualmente di ottima salute. Ma l’operazione di “Cowboys & Aliens” è riuscita? Si può sperare che il western, grazie agli effetti speciali della fantascienza, possa tornare in vita? Non tutti sono d’accordo. Nell’ultimo numero della Bibbia ad uso e consumo della cinefilia patinata, i francesi “Cahiers du cinéma”, è apparsa una sonora stroncatura: «è il blockbuster più noioso dell’estate». Giudizio davvero severo.

Purtroppo il film diretto da Jon Favreau non riesce a mantenere quello che sulla carta aveva promesso: una nuova vena aurea. Gli incassi negli Stati Uniti non sono stati spettacolari. Gli stessi esatti di un film simile, uscito quest’anno: “Battaglia per Los Angeles”. Anche qui, come in  “Cowboys & Aliens”, gli alieni hanno abbandonato le sembianze amichevoli e pacificatrici che gli aveva assegnato Steven Spielberg. Ormai sono ritornati cattivi come un tempo, e anche il maestro Spielberg accredita prodotti come “Super 8” e “Cowboys & Aliens”. Il messaggio agli umani però è chiaro: mettendosi insieme, dimenticando le differenze sociali, razziali, sessuali, si può sconfiggere un nemico sulla carta imbattibile. Forse la fantascienza non ce la farà a resuscitare il western. Però ha riportato in vita gli eroi. A Brecht gli eroi stavano sulle scatole. Ma la narrazione del mondo, privata degli eroi, perderebbe fascino e magia. Questo Borges lo aveva ben chiaro, pur non possedendo una vista da falco.