Illusioni politiche ed errori ideologici del governo tutt’altro che tecnico di Monti
01 Maggio 2012
In poco tempo “governo dei tecnici” di Mario Monti ha perso la popolarità che aveva, non solo fra gli elettori, ma anche fra i media e i circoli economici e finanziari che lo hanno sponsorizzato. Ne è una chiara testimonianza l’editoriale di “sostegno allarmato” del direttore del il Correre della Sera, Ferruccio De Botoli, che -lo si noti- raramente scrive editoriali e che dirige un giornale che è stato e rimane il primo sponsor di questo governo.
Egli scrive che l’esecutivo Monti ha fatto in gran parte bene, ma si è indebolito ed ha bisogno di nuovo slancio. Poi aggiunge che occorrono segnali concreti, non discorsi cattedratici generici sulla spending review, ossia sulla riduzione della spesa, cercando di capire dove vanno a finire i soldi pubblici. Del resto la stessa BCE ora lancia avvertimenti, in modo garbato, al governo italiano, sia sulla crescita che sulla spesa. E, a questo scopo, fa anche un riferimento esplicito alle province, il cui numero andrebbe ridotto. Reputo che questa osservazione della BCE riguardi sia le province come organi di articolazione amministrativa dello stato che le province, come istituto di autonomia locale, su base elettorale diretta. Ma in entrambi i campi si può fare molto di più.
Le province come governi territoriali autonomi dovrebbero trasformarsi in meri consorzi di comuni e i loro organi, presidente e giunta, andrebbero eletti in secondo grado dai delegati dei comuni, fra i consiglieri comunali. I loro uffici andrebbero ridotti al minimo, con poche funzioni essenziali. Anche le province come organo di decentramento amministrativo possono essere snellite, riducendo al minimo il personale delle prefetture, ente oramai in gran parte inutile a differenza delle questure, che si occupano della pubblica sicurezza. Mi sono dilungato in questo esempio per far capire che spazi per ridurre le spese ci sono.
Ora il governo ha tagliato la spesa per 4,2 miliardi evitando per quest’anno l’aumento dell’IVA. Bisogna che la cosidetta spending review a cura di apposte commissioni speciali diventi più incisiva, cioè strutturale. Fino a ieri è stata un diversivo per guadagnar tempo. Ma tornando al cuore del problema, mi pare che si possa dire che la prima ragione per cui il governo Monti ha perso, in poche settimane, una parte rilevante di suoi consensi e del suo smalto è che chi lo sosteneva e gli stessi suoi membri, incluso il professor Monti, si erano fatti molte, eccessive illusioni. Ed ora subentra una delusione che, innanzi tutto, deriva dal fatto che si scopre una cosa ovvia: ossia che la situazione in cui versava il governo Berlusconi era oggettivamente difficile, sicché non bastava un cambio di persone, per fare miracoli.
Questa è la prima illusione, cui è seguita una delusione. Ma ce ne è un’altra, forse ancora più importante, che riguarda l’illusione che ci si era fatta che il PD avesse un’anima liberal-socialista e che messo insieme al PDL e all’UDC avrebbe potuto dare luogo a una linea di riforma ispirata a criteri di economia di mercato, quali ci vengono richiesti. Ciò pur rimanendo sensibile alle tematiche sociali, come è giusto che sia per un partito che si denomina “di centro sinistra”. Ma non è così, esso è, allo stato degli atti, in gran parte, un partito dirigista, statalista, centralista. E, da molti anni, la sua componente sindacale principale, che è la CGIL, è diventata un sindacato neocorporativo con vocazione per il contratto unico nazionale, anziché per la contrattazione aziendale con formule varie e diversi contratti di lavoro, a geometria variabile. L’illusione principale era che il PD fosse diventato un partito moderno, come ora accadde a certi partiti di sinistra europei. E’ invece un partito di idee tradizionali.
C’era una terza illusione, forse più difficile a svanire: quella che l’attuale governo sia un governo di tecnici, ciascuno esperto nel proprio campo, dal punto di vista degli strumenti operativi richiesti. Quando esso fu formato, sulla base della sua composizione, io ebbi ad osservare che, a parte l’eccessiva presenza di figure provenienti dal mondo della banca, si trattava di un governo amministrativo: simile, in questo, al governo Badoglio, successivo alla caduta di Mussolini. Ciò data l’ampia presenza di ministri che provengono dalle alte gerarchie della pubblica amministrazione, nel senso lato del termine. L’unico vero tecnico, a me parve e pare che sia il premier Mario Monti, che non è soltanto un professore di economia politica, ma è anche stato al vertice di un ministero europeo, vale a dire la Commissione europea per la concorrenza. Ciò gli ha dato quella particolare competenza, che consiste nel collegare le scelte economiche, con gli aspetti organizzativi e con quelli giuridici, su uno sfondo politico. Anche la politica ha le sue tecniche.
Data la sua composizione, non stupisce che questo governo, di fronte a problemi complessi, abbia fatto degli errori e che ne stia facendo. Per altro una parte di questi errori è di natura ideologica. I casi maggiori sono nel settore del lavoro, nel settore tributario e in quello delle liberalizzazioni e delle regolazioni.
Ma prima che degli errori ideologici, voglio far notare alcuni errori tecnici: imperdonabili, per dei tecnici. Il primo è quello sul tema dei cosidetti “esodati” ossia i lavoratori che hanno contrattato con l’impresa un pensionamento anticipato prima della riforma delle pensioni. E che ora, dopo tale riforma, non possono andare in pensione, ma sono nel limbo, perché forse hanno perso il proprio posto di lavoro, a causa di un accordo contrattuale con la propria impresa, che per altro potrebbe essere impugnato in tribunale, ai sensi degli articoli 1427-29 del codice civile. Ancora adesso non si sa quanti siano gli esodati e non si è capito quali siano le soluzione che il Ministero del lavoro intende adottare in relazione a una casistica, che è molto variegata. Il secondo errore tecnico riguarda l’IMU per la quale si erano disposte due rate di pagamento, la prima delle quali antecedente alla data in cui i comuni possono fissare le aliquote.
Ma vengo agli errori tecnici di natura ideologica. Il Ministro del lavoro ha una storia personale di sinistra, che risulta dalla sua precedente collocazione nel consiglio comunale di Torino e che ha ulteriormente dimostrato manifestando una preferenza per la partecipazione alle assemblee sindacali indette dalla CGIL, nonostante che ciò comporti una messa in minoranza degli altri sindacati. E il progetto che intendeva adottare era un progetto del professor Ichino, senatore del PD basato sul contratto unico nazionale a tempo indeterminato e sulla abrogazione degli altri tipi di contratto, quelli della legge Biagi, sia pure in modo graduale. Tale contratto unico nazionale non prevede la cassa integrazione straordinaria, ma prolungate indennità di licenziamento, secondo il modello danese, che è notoriamente un modello costoso in quanto l’indennità di licenziamento è pagata dallo stato del benessere. Muovendo da questo modello, del tutto diverso dalla realtà, Elsa Fornero ha iniziato la sua riforma, prendendo a riferimento non i fatti, ma il progetto Ichino.
Il metodo liberale si basa su principi opposti a questo metodo e a questo progetto. Il primo è quello del pragmatismo, perché la razionalità è limitata, si procede con riforme realistiche, basate sui dati di fatto. Il secondo è quello della irrinunciabilità a certi canoni: la libertà di contratto che prevede di poter fare liberamente diversi contratti e la prevalenza del diritto privato sul diritto pubblico e quindi delle clausole decise dalle parti sulle norme di legge che limitano la libertà di contrattare. Con questa riforma del lavoro, invece che dare più libertà in uscita, cioè di licenziare, con costi per l’impresa che, così, la esercita a proprie spese (non a spese del contribuente ) e più libertà in entrata, si è immaginato uno scambio fra maggior libertà in uscita a spese del bilancio pubblico e minore libertà in entrata con imposte e vincoli e regolamentazioni restrittive. Ma mentre gli ostacoli alla libertà in entrata si sono moltiplicati, si è derogato a quella in uscita nella parte più importante, per il diritto civile: il comportamento scorretto del lavoratore, come l’assenteismo ripetuto che viola il rapporto fra prestazione e contro prestazione non comporta licenziamento ma ricorso al giudice per ottenerlo.
Ci sono altri errori tecnici di ordine ideologico, che riguardano la materia tributaria e fiscale. Per settimane i media italiani, che volevano la soluzione del governo tecnico, prima che esso fosse varato, hanno insistito con le imposte sui patrimoni del ceto medio, delle famiglie, soprattutto sugli immobili. Questo settore è quello in cui l’imposta genera il massimo effetto di deflazione, perché si capitalizza in una riduzione del valore patrimoniale del bene colpito. Così si deprezza la ricchezza nazionale che garantisce i mutui. L’incertezza sulla pervicacia della tassazione immobiliare a sua volta scoraggia l’edilizia, volano importante per la crescita. Un altro errore ideologico in materia fiscale sta nelle procedure: il recupero delle evasioni, mediante raid clamorosi, la riscossione dei tributi con le ganasce fiscali in modo vessatorio. Sono arrivati i giustizialisti sanculotti fiscali, mentre il fisco non rimborsa le imposte pagate in eccesso e l’erario non onora i suoi debiti.
Per dare efficienza all’economia e quindi prospettive di crescita, oltreché un sistema flessibile di contratti di lavoro e un sistema di tributi conforme al mercato, occorrerebbe fare liberalizzazioni e de-regolazioni vere. Nella graduatoria del “doing business “ della Banca mondiale noi siamo allo 87simo posto su 183 stati del mondo. E abbiamo il posto 96 per effettuare un progetto edilizio. In Italia, si può anche costituire rapidamente un’impresa, ma siamo al posto n. 77 perché ci sono una miriade di autorizzazioni per essere operativi. Per ottenere le autorizzazioni a produrre con l’energia elettrica siamo al posto 171 e per la registrazione della proprietà e i suoi costi fiscali siamo al posto 84, date le incombenze di vario genere e la lentezza delle pubbliche burocrazie ai vari livelli di competenza. Non stupisce il posto 134 per il pagamento delle imposte, date le complicazioni delle pratiche in aggiunta al peso dei tributi e dei contributi sociali. Infine per la risoluzione delle controversie sui contratti, data la lunghezza delle cause commerciali, del lavoro e amministrative siamo al posto 156.
Tutto questo doveva essere affrontato con un serio programma di liberalizzazioni. Si è fatto altro. Si tratta, è vero, in parte, di problemi annosi: che abbiamo ereditato dalla cultura dirigista, che non riusciamo a scrollarci di dosso. Ogni volta che Berlusconi ci ha provato, come quando ha voluto adottare procedure d’urgenza per le grandi opere o misure di de-regolazione per le case, è stato criminalizzato.
Il governo tecnico aveva annunciato svolte clamorose, come un programma di liberalizzazioni con il titolo “cresci Italia”, poi ha fatto solo interventi marginali, perché la cultura del PD e di una parte dei suoi stessi ministri che ne sono referenti, lo impedisce. Nonostante tutto ciò appare necessario che il governo prosegua per tutta la legislatura, perché occorre che il programma verso il pareggio non sia messo in dubbio da una crisi politica. Ma non bisogna farsi troppe illusioni. Sarà una traversata faticosa. E comunque il PDL ha il gravoso compito di stimolare il governo di coalizione a una economia pubblica favorevole al mercato. La socialità non va confusa con il dirigismo, il giustizialismo, i sanculottismo, l’assistenzialismo e il neo corporativismo, un intruglio che da anni fa parte purtroppo della cultura degli intellettuali impegnati e dei moralisti ufficiali.