Immigrazione, la miopia del Governo e la furbizia di Epifani
03 Novembre 2008
Il rifiuto massimalista di tanti esponenti del Pdl alla proposta di Guglielmo Epifani di prorogare il periodo in cui gli immigrati possono cercare un lavoro – dopo averlo perso a causa della crisi imminente – è tanto impressionante quanto autolesionista.
Epifani, infatti, con eccellente fiuto, avanza questa proposta perché ha l’evidente intenzione di farsi promotore di un movimento di massa che replichi quello dei “sans papier”, che sconvolse la Francia di qualche anno fa. La sua Cgil, con chiarezza, ha deciso di abbandonare la strada della concertazione intrapresa da Lama e Trentin, di rompere l’unità sindacale e di percorrere il cammino della mobilitazione sociale di massa, occupando quell’immenso spazio politico che la sinistra parlamentare del Pd lascia scoperto per la propria inettitudine strategica (e per le lotte tra boiardi che la affliggono). Epifani sa che da qui a qualche mese, dopo avere proclamato i suoi scioperi generali che saranno sicuramente dei successi quanto a gestione della piazza, la sua Cgil può lucrare un eccellente egemonia politica su tutta l’area del centrosinistra facendosi portavoce chiassosa delle ragioni degli immigrati (che peraltro hanno alti tassi di iscrizione sindacale: circa 900.000) e si prepara a fare sfilare migliaia di immigrati regolari, che hanno perso il lavoro, e che hanno troppo poco tempo (la Bossi Fini prevede sei mesi) per trovarne un altro (Epifani propone che abbiano a disposizione due anni). Il tema, peraltro, non è inventato, tanto che già prima dell’esplodere della crisi e dell’affermarsi della recessione, il governo spagnolo di Zapatero, l’estate scorsa, aveva provveduto a varare una legge che lo affrontasse incentivando economicamente il ritorno in patria di 80.000 immigrati regolari.
Un governo attento alla questione avrebbe dovuto rispondere a Epifani che aveva ragione nell’indicare il problema – una prevedibile ed esplosiva disoccupazione tra gli immigrati regolari – ma che sbaglia la proposta – permettere ai disoccupati di restare in Italia – e che la soluzione “di sinistra” era quella indicata dal socialista Zapatero con una politica di incentivi al ritorno in patria.
Ma così non è stato. Solo Giuliano Cazzola ha valutato con attenzione e senza pregiudizi il tema avanzato da Epifani, mentre tutti gli altri dirigenti del Pdl si sono esibiti in una levata di scudi a favore dell’intangibilità della Bossi Fini, in prima fila, naturalmente, i leghisti. Pura conservazione dell’esistente (la Bossi Fini è stata elaborata in un periodo espansivo) e totale cecità e sordità nei confronti della drammaticità delle tensioni sociali imminenti che Epifani – sia pure strumentalmente – evoca e che sono assolutamente reali.
Naturalmente non è un caso che Cazzola abbia accolto le preoccupazioni del segretario della Cgil: è infatti un ex sindacalista, conosce le dinamiche sociali e soprattutto conosce Epifani e comprende bene quale disegno di prospettiva di celi nella sua proposta. Così non è per tutti gli altri dirigenti del Pdl e della Lega che hanno dato ennesima testimonianza del fatto che il tallone d’Achille del centro destra di governo è la sua assoluta inadeguatezza nel gestire le tensioni sociali. Peggio: prende provvedimenti – spesso saggissimi – che modificano lo status quo su qualche punto nodale delle relazioni sociali, viene confrontato da un forte movimento di massa – e di piazza – di marcata valenza conservatrice, e allora…. cede, cala i pantaloni, perde la bussola. E’ successo nel 1994 con i provvedimenti sulle pensioni d’anzianità inseriti in Finanziaria; è successo nel secondo governo Berlusconi con il braccio di ferro sull’articolo 18, sta succedendo in questi giorni con la scuola. Lo stesso Berlusconi, ogni volta che inaspettatamente decisioni del suo esecutivo creano un forte movimento di protesta, nel momento in cui questo si impone nel paese – e incide negativamente sui suoi indici di popolarità – abbandona la frontiere liberale rigorista che li aveva ispirati e favorisce mediazioni che spesso sono vere e proprie ritirate. La ragione di questa forte debolezza politica è evidente ed è tutta iscritta nel processo di formazione del gruppo dirigente del centrodestra, in particolare nella stessa biografia del premier che si è imposto ai vertici dell’economia nazionale creando dal nulla un impresa –Mediaset – che da una parte si fonda sulla ricerca del consenso – questa è infatti l’audience – e dall’altra, però, non è minimamente caratterizzata dalla logica dell’antagonismo sociale che caratterizza le relazioni industriali classiche. Berlusconi è il simbolo perfetto di una leadership che si impone in una società postindustriale e infatti in Mediaset, non ha mai dovuto fronteggiare uno sciopero aziendale di peso. Questo può sembrare un particolar ininfluente, ma non lo è.
Il problema è che questo tallone d’Achille riverbera il suo influsso negativo su molti campi. Ultimo, ma non per ultimo, quello del governo dell’immigrazione. Berlusconi – sempre a causa della sua scarsa inclinazione a percepire le tensioni sociali – ha delegato sinora questo tema alla Lega (sino al punto di accettare il diktat di Maroni che i è rifiutato di cedere la delega sull’immigrazione ad Alfredo Mantovano di An). La Lega, a sua volta, ha gestito il tema secondo le proprie inclinazioni massimaliste, basandosi molto sull’effetto annuncio e calcando la mano sugli aspetti repressivi del fenomeno. Una scelta non molto lungimirante, che ha creato non pochi disastri d’immagine (vedi quella mozione sui corsi d’italiano, perfetta in sé, ma gettata a freddo nell’agone politico con risultati disastrosi, sì che oggi larga parte dell’opinione pubblica è convinta si vogliano introdurre classi differenziali per gli immigrati). Una scelta sbagliata, che peraltro penalizza lo stesso eccellente patrimonio di elaborazione riformista della Lega in tema di immigrazione, a partire dalla giusta concezione di una presenza in Italia legata preferibilmente al ciclo lavorativo, con l’adozione di politiche che favoriscano al massimo il rientro in patria (concezione assolutamente “di sinistra”, quanto incredibilmente avversata dalla sinistra nostrana).
Una scelta che oggi rischia di apparire miope, e non solo per i contraccolpi della mobilitazione sociale che la Cgil di Epifani produrrà, centralizzando – e anche enfatizzando – il tema del disagio degli immigrati regolari che verranno licenziati a causa della crisi. Tra non molto, infatti, si affermerà n tutto il Nord la percezione di un fallimento previsto: le politiche contro la clandestinità e sulla sicurezza del governo infatti non avranno prodotto molti cambiamenti, al di fuori del campo – effettivamente non secondario, ma parziale – della razionalizzazione dei campi dei Rom. La ragione di questo fallimento inevitabile è ovvia: da una parte vi sono 500.000 lavoratori clandestini che però sono ampiamente integrati nel tessuto produttivo e la legalizzazione prevista di soli 170.000, non risolverà il problema. Dall’altra, nulla si è fatto e nulla si fa per governare quell’immissione caotica e irritante di centinaia di migliaia di immigrati regolari nei centri storici delle città del nord trasformati in souk caotici, così da costituire un contesto perfetto in cui i lavoratori clandestini possono trovare accoglienza, riparo e permeabilità assoluta all’individuazione.
Sono temi regolarmente assenti dall’agenda del governo, delegati all’opera e all’attenzione del solo ministro degli Interni (scelta di per sé sciagurata, nonostante la pacata saggezza personale di Roberto Maroni), con marginale attenzione da parte degli altri dicasteri, che già minacciavano di esplodere per combustione autonoma, ma che ora siamo sicuri si infiammeranno per la semplice ragione che la Cgil di Guglielmo Epifani ha deciso di gettarvi sopra benzina e fiamme.