George W. Bush risponde politicamente. E basta. Così Clinton, così Bush padre, così Reagan, così Carter, così tutti. Nixon compreso. L’impeachment? È un’altra cosa. È un sistema diverso quello americano, però nessuno si sogna di contestare l’immunità di fatto della quale gode il presidente. Non è prevista dalla Costituzione né da alcuna legge federale. C’è perché l’ha sancita la Corte Suprema una vita fa e da allora nessuno ha più pensato che fosse un istituto da rivedere, da correggere. C’è. Punto. Perché l’America spesso non scrive, ma fa. È dal 1867 allora che il presidente degli Stati Uniti gode di una pressoché totale immunità. Non viene messo sotto processo neanche se per lui viene aperta una procedura di impeachment. Vuol dire che la magistratura, fino a quando è presidente, non lo tocca, anche se potrebbe. La sua immunità è pressoché totale solo perché può essere processato per quello che fa da presidente. È la messa in stato d’accusa, cioè l’impeachment, appunto. Questo sì è previsto dalla Costituzione. Arriva per eventuali illeciti gravi: la Carta parla di «tradimento», «concussione» e di altri «gravi crimini e misfatti». Cioè è vaga, alla fine. Così vaga che da tre secoli l’America si divide su che cosa siano gli altri “gravi crimini e misfatti” e siccome vale sempre e comunque il rispetto per le alte cariche dello Stato la storia e la giurisprudenza hanno praticamente sempre inteso in senso restrittivo le parole della Costituzione. Vuol dire che l’impeachment è stato usato poco, anzi pochissimo. Non è stato usato per esempio contro Richard Nixon, per lo scandalo Watergate. Le dimissioni arrivarono prima che la procedura fosse avviata. Avrebbe potuto essere messo sotto stato d’accusa, comunque. Perché il reato che gli veniva contestato avvenne “nell’esercizio delle sue funzioni”. È questa la differenza fondamentale degli Stati Uniti: il presidente gode dell’immunità funzionale legata alla sua doppia carica di capo dello Stato e di capo dell’esecutivo, sancita proprio da una sentenza della Corte Suprema del 1867, ma può comunque essere “processato” se sbaglia come presidente. Ecco perché risponde politicamente, perché il processo al quale va incontro se commette gravi errori è politico. Tanto che tutto quello che rischia è questo: la rimozione o destituzione dalla carica e l’interdizione dai pubblici uffici.
A Washington un presidente non finisce sotto processo per affari privati commessi da normale cittadino prima che fosse presidente. Potrebbe ma non si fa. Andrew Johnson, vicepresidente di Lincoln e presidente dopo la morte di Abramo fu sottoposto all’impeachment per alcuni supposti abusi nell’esercizio dei suoi poteri, nel quadro di un conflitto senza esclusione di colpi con il congresso. Johnson era contrario alla politica fortemente punitiva che il Parlamento, conclusa la Guerra di secessione americana (1861-1865), stava intraprendendo contro gli Stati del sud. Non fu condannato: si salvò per un solo voto, ma il partito repubblicano a cui apparteneva e che dominava il congresso non lo ricandidò più. Neanche Clinton fu condannato: nel 1999 subì l’impeachment per aver mentito sulla sua relazione con Monica Lewinsky. Il capo di imputazione principale fu lo spergiuro. Reato politico, quindi. Poi ostacolo alla giustizia, in particolare a causa delle pressioni esercitate su alcuni collaboratori affinché non emergesse la verità. Non fu condannato perché i suoi comportamenti furono giudicati attinenti più alla sfera privata che a quella pubblica del presidente.