In Afghanistan la guerra del momento, ma la partita irachena resta aperta
16 Maggio 2009
Israele
Continua l’iniziativa di Obama verso la ricerca di una strada possibile per la pace tra israeliani e palestinesi, che passa ancora, sempre secondo la nuova amministrazione, per la formula “due popoli, due stati”. Ma i rapporti con il governo israeliano sembrano non essere più quelle di una volta: “Rappresentanti dell’amministrazione israeliana in Gerusalemme hanno manifestato preoccupazione per il brusco declino delle azioni comuni (con gli USA, nda) riguardo ai problemi di sicurezza della regione”. Le cause risiedono anche nelle intenzioni americane di avviare trattative con l’Iran. Efraim Halevy, direttore del Shasha Center for Strategic Studies all’Università Ebraica di Gerusalemme, nonché ex direttore del Mossad (1998-2002), in un’intervista rilasciata al Middle East Bulletin ha dichiarato saggiamente: “Penso che Israele dovrebbe chiarire a chi sta intraprendendo i colloqui con l’Iran, e prima di tutti gli Stati Uniti, che non interferirà nel dialogo se gli interessi israeliani sono riconosciuti e protetti…Il mondo si deve confrontare con tre sfide poste dagli iraniani: prevenire il nucleare, gestire l’orgoglio nazionale di Teheran, legato al possesso di uranio arricchito, e trovare una soluzione regionale che coinvolga tutti gli altri paesi”.
Gli sforzi di Obama sono seguiti con attenzione e partecipazione dagli esperti americani e mediorientali; qui la posizione di un numero nutrito di ambasciatori americani a favore della ripresa dell’iniziativa in Medio Oriente: ecco i cinque obiettivi che si devono raggiungere:
“1. La riapertura dei colloqui israelo-palestinesi tramite la mediazione americana;
2. la fine degli attacchi terroristici a Israele e del contrabbando di armi a Gaza e un aumento delle forze di sicurezza addestrate dagli americani nel West Bank;
3. il congelamento della costruzione degli insediamenti in Cisgiordania, lo smantellamento dei check-points superflui e degli insediamenti illegali, la cessazione delle case palestinesi a Gerusalemme est;
4. l’immediata ricostruzione di Gaza con al centro i bisogni civili e dell’economia locale;
5. il raggiungimento della pace tra Israele e i paesi vicini (Libano e Siria, ndr) attraverso l’iniziativa di pace araba come base dei negoziati”.
Il 7 maggio il generale Keith Dayton ha tenuto una conferenza in occasione del The washington Institute’s 2009 Soref Symposium. Il Generale Dayton ha un ruolo delicato e importante, e sconosciuto, di coordinatore statunitense tra Israele e l’Autorità Palestinese a partire dal 2005. Nella situazione attuale egli vede un’ opportunità e una sfida. Ecco i principi che hanno diretto il suo lavoro: “Primo, credo fermamente che sia negli interessi della sicurezza nazionale degli Stati Uniti aiutare a risolvere il conflitto israelo-palestinese. Secondo, … credo fermamente nella soluzione dei due stati… Il terzo principio – che ripeto tutte le volte ai miei amici israeliani – i legami tra gli Stati Uniti e Israele non possono essere rotti oggi, né domani, né mai”.
Sulla situazione dei rapporti israelo-palestinesi, Tony Blair, rappresentante del “Quartetto”, ha parlato alla Commissioni esteri del Senato americano il 14 maggio. Il suo discorso è stato estremamente chiaro e sintetico. “Non vi è nessuna alternativa alla soluzione dei due stati… La cosiddetta iniziativa araba di pace, lanciata nel 2002 al summit di Beirut della Lega Araba da re Abdullah dell’Arabia Saudita e ripresa nel 2007 nel summit di Riyadh, è un passo in avanti…Il problema è ridare credibilità a questo processo…Israele non è d’accordo con la creazione di uno stato palestinese fino a quando non sarà sicuro della natura (pacifica, ndr) di questo stato… i palestinesi saranno disponibili ad un accordo quando avranno il pieno controllo e governeranno effettivamente…Per raggiungere questo obiettivo è necessario affrontare tre questioni: vi deve essere un chiaro e credibile negoziato politico per la soluzione dei due stati…Secondo, deve essere data ai palestinesi la capacità di governare il proprio territorio… Le preoccupazioni alla sicurezza dello stato di Israele devono essere calmate… attraverso una riforma del settore sicurezza palestinese e stabilire lo stato di diritto nel nuovo stato”.
L’amministrazione Obama viene però criticata perché, distratta dagli affari pakistani e afghani, permetterebbe all’Iran di accrescere la sua influenza in tutta la regione, irrigidendo, di conseguenza, l’atteggiamento del primo ministro israeliano Netanyahu.
Tra le molte sfide che Israele deve affrontare è chiaro che quella esiziale è rappresentata dal possesso del nucleare dell’Iran che stimola la sensibilità e la memoria israeliana con le continue minacce di distruzione o negazioniste rispetto all’olocausto. “La strada diplomatica rimane l’approccio preferito”, si dice nel rapporto Israel and a Nuclear Iran: Implications for Arms Control, Deterrence, and Defense dell’importante thik thank israeliano Institute for National Security Studies. Comunque, l’esperienza indica che i negoziati da soli non persuaderanno l’Iran a fermare il suo programma “finché agli occhi degli iraniani il possesso di armi nucleari è l’obiettivo supremo”.
Afghanistan
Nella partita a scacchi tra Stati Uniti e Russia, i rapporti sembrano tendere al sereno, almeno in Afghanistan, vista la volontà di Mosca di far passare i rifornimenti per le truppe alleate attraverso il suo territorio. “La Russia è pronta per la cooperazione sulla questione”, ha confermato il portavoce del Ministro degli Esteri Andrei Nesterenko.
Pakistan
Nella guerra al terrorismo, è il Pakistan nell’occhio del ciclone. In un reportage del Times, una nuova immagine incoraggiante: in molte madrasse del Punjab e delle Province della cosidetta North West Frontier non è inusuale sentire le parole di condanna dei mullah sunniti: “I talebani sono il male, per questo noi appoggiamo il nostro governo e il suo (si noti la distanza, ndr) diritto a distruggere i talebani”. E questa è la convinzione anche del generale Petraeus: “La leadership pakistana è unita nell’opposizione all’occupazione talebana della valle dello Swat (ad un centinaio di chilometri di distanza da Islamabad, ndr)” e le recenti operazioni militari contro di loro “sembra che abbiano galvanizzato tutto il Pakistan”.
La debolezza del Pakistan, paese fino a pochi anni fa sconosciuto ai più, è manifesta. “Henry Kissinger una volta si chiese se la Repubblica Islamica dell’Iran era un paese o una causa. Riguardo al Pakistan, la questione è se sia un paese o semplicemente uno spazio… Il mondo si è sempre confrontato con paesi che si identificano con una causa a volte buona a volte cattiva – il nazismo e il comunismo – ma mai con uno spazio”, afferma Breth Stepghens sul Wall Street Journal.
Questa guerra, come tutte le guerre moderne, è anche combattuta sui media. Il Council on Foreign Relations afferma: “Nelle battaglie di comunicazione, i miliziani sembrano avere la meglio. Usano trasmettitori FM, internet e altri media”. E gli Stati Uniti hanno riconosciuto la difficoltà di coordinare le fonti e i messaggi con un risultato non eccellente.
Iraq
La prima visita che il Papa ha compiuto in Giordania è stata in un centro diretto da religiosi cristiani per bambini handicappati. In quell’occasione, sui giornali è apparsa la notizia del trattamento disumano riservato ai disabili in Medio Oriente; a Bagdad gli americani hanno aperto un istituto per la riabilitazione per il numero impressionante di feriti e mutilati, ma sopravvivrà quando gli Stati Uniti si ritireranno?
Si parla tanto di ritiro, ma il futuro rimane oscuro e incerto. Stephen Biddle, celebre analista americano, ha prodotto un report per il Center for Preventive Action disegnando diversi scenari, ma la migliore prevenzione contro l’incertezza rimane quella di rallentare al massimo il ritiro delle truppe, diluendolo nel tempo e collegando il rimpatrio ad obiettivi raggiunti di pacificazione.
Intanto, tra mille contraddizioni continuano i progressi sul campo. E’ la volta del Kurdistan che ha raggiunto un accordo di fatto con il governo centrale – che però nega – sulla possibilità di vendere il petrolio estratto sul proprio territorio. Se questa sia l’anticamera al federalismo o ad una spartizione etnico-confessionale dell’Iraq è presto per dirlo, ma per lo meno si tratta di accordi tra governo centrale e regionale e non di scontri. Il fatto è che si può vincere la guerra e perdere la pace, anche a causa delle distrazioni americane. Per cui adesso l’Iraq rischia di diventare la “guerra dimenticata”, per usare le parole di Anthony Cordesman del CSIS di Washington. Il pericolo è infatti che gli Stati Uniti si precipitino a portare a termine la loro exit strategy, ma senza una strategia che tenga in debito conto degli enormi problemi di sicurezza che ancora affliggono l’Iraq e che minacciano di riportare il paese nel caos.
Quello che si può con tranquillità dire è che la discussione negli Stati Uniti è ampia e franca (fino a rischiare l’autolesionismo?) e quindi arrivano notizie, informazioni e storie che aiutano a farci un’idea migliore anche delle vicende più recenti. Su Vanity Fair si parla del Risveglio sunnita, che è stato fondamentale nel surge contro l’insorgenza irachena animata da qaedisti e nostalgici di Saddam Hussein: ora si viene a sapere che già nel 2004 i sunniti avevano offerto questa possibilità, ma che i comandi USA non avevano capito…
Sempre sul surge, è uscito da qualche tempo un libro interessante, anche se per certi versi superficiale, intitolato “The Gamble: General David Petraeus and the American Military Adventure in Iraq, 2006-2008” di Thomas E. Ricks (Penguin Press, 394 pp., $27.95). Del libro si parla in una recensione che afferma la stessa tesi della sparizione dalle prime pagine dell’Iraq. “Dalla centralità alla banalità: forse nella storia moderna dell’America nessun altro evento è passato da una disputa accesa alla dimenticanza così velocemente come la guerra in Iraq. Ricordate la guerra? Ha consumato miliardi di dollari, divorato un centinaio di migliaia di vite irachene, sciupato la reputazione di un paese e distrutto una presidenza americana. Dato il ritiro della stampa americana – il primo ritiro dall’Iraq, si può dire – si potrebbe quasi essere scusati, nella primavera del 2009, di dimenticarsi che 140.000 soldati americani stanno ancora combattendo e morendo là”.
Sulle prime fasi dell’intervento USA in Iraq, sulle attività della Coalition Provisional Authority e del suo amministratore, L. Paul Bremer, che governò l’Iraq dal maggio 2003 al giugno dell’anno seguente, possono essere dette molte cose. Un dato è certo però: la confusione che seguì la caduta di Saddam portò ad una serie di errori incredibili (tra i più eclatanti: lo scioglimento dell’esercito, l’eccessiva de-baathificazione, il mancato passaggio di consegne ad un governo provvisorio iracheno fino ad arrivare a non occuparsi della messa in sicurezza della popolazione). Ora un saggio della Rand Corporation, “Occupying Iraq. A History of the Coalition Provisional Authority” aiuta a comprendere quei fatti.
Questo documento sulla situazione irachena e sui rapporti con gli stati vicini è invece del Senato Americano. Baghdad ha relazioni complicate e difficili con i paesi confinanti con questioni aperte con tutti: con la Siria da dove entrano i guerriglieri sunniti e qaidisti, con la Turchia per la questione curda e della minoranza turcomanna, con l’Iran per le sue ingerenze, a volte ben evidenti, e sempre per le tensioni curde, con l’Arabia che vede nel nuovo Iraq sciita la lunga mano degli ayatollah. La porosità dei confini iracheni, da cui transitano migliaia di terroristi, contrabbandieri e trafficanti vari, è sempre stata ed è un cruccio per gli Stati Uniti, problema che può minacciare la stabilità del paese.
Per chi volesse approfondire l’analisi dell’Iraq, ecco un documento del Congresso USA sul debito di quel paese e sui meccanismi e procedure attuati per ridurlo, questione non secondaria perché coinvolge in prima persona i vicini poco amichevoli come l’Arabia Saudita.
Arabia Saudita
Il regno saudita è molto citato e poco conosciuto. Il primo di una serie di documenti porta un titolo inquietante, ma centrato su di un tema oggettivamente vero: "Forum Relazioni America-Arabia in un mondo senza equilibrio” che ha trattato i temi della sicurezza nell’area e dei compiti comuni ai due paesi. Il secondo report, dedicato in realtà all’Iraq, tocca un punto dolente: le relazioni tra Arabia Saudita e Iraq, non buone a causa del nuovo governo sciita di Bagdad visto da Riyadh come troppo vicino all’Iran.
Sulle difficoltà di relazione con l’Iran, si veda questo documento “Le relazioni iraniano-saudite dalla caduta di Saddam. Rivalità, cooperazione e implicazioni per la politica USA” della Rand. I due paesi infatti dal 2003 stanno lottando, in modo nemmeno non tanto nascosto, sia per l’egemonia nel mondo mussulmano da un punto di vista religioso, sia per quella regionale. Dinamiche religiose e statali si intrecciano in un groviglio non sempre facile da districare.
Anche le relazioni tra Usa e Arabia Saudita sono contraddittorie. Da una parte, infatti, abbiamo una dinastia tradizionalista che governa in modo feudale uno dei paesi più ricchi del mondo, senza nessun rispetto per i diritti umani e con ampie infiltrazioni terroristiche tra le sue fila, dall’altra, un alleato degli USA. Dicotomia che pone sempre in tensione il rapporto tra i due paesi. Da qui sempre la ricorrente domanda di quanto gli USA si debbano fidare dei sauditi. C’è da dire che negli ultimi tempi la polizia saudita ha intensificato, con successo, la lotta contro Al Qaida. “Abbiamo ucciso o catturato tutti i combattenti – secondo le parole di un alto ufficiale di polizia – e il resto è andato via in Afghanistan o in Yemen… Quello che rimane qui è solo l’apparato ideologico” .
Libano
In Libano si terranno a breve si andrà alle urne. Salvo qualche incidente, la campagna elettorale si è svolta in maniera pacifica. Il confronto è tra coalizione filoccidentale dell’8 Marzo e quella guidata da Hezbollah, il 14 Marzo. La posta in gioco è altissima: Hezbollah può infatti per la prima volta mettere direttamente le mani sul governo del paese. I sondaggi danno il Partito di Dio in testa. A tal proposito, significativa è l’intervista allo sceicco Naim Qassem, tra i leader di Hezbollah: “Credo che prenderemo la maggioranza nelle elezioni parlamentari perché abbiamo un largo supporto e durante quattro anni di opposizione abbiamo avuto il più vasto supporto popolare e queste elezioni lo proveranno”.