
In Algeria non servono gli amerikani per scatenare il jihad

12 Aprile 2007
La terribile successione tra gli attentati di Casablanca,
Algeri e dentro il parlamento di Baghdad, concatenati un giorno dopo l’altro,
obbliga a prendere atto di qualcosa di molto più grave e preoccupante della
evidente capacità di coordinamento e di iniziativa dell’arcipelago terrorista
di al Qaida. E’ straordinario, ormai, il livello tecnico militare di cui danno
prova gli attentatori: ad Algeri sono riusciti a colpire addirittura la sede
ufficiale del capo del governo Abdulaziz Belkacem, nonostante la capitale sia
da 16 anni sottoposta ad un ferreo controllo poliziesco e militare, nonostante
in quelle stesse ore l’esercito stesse effettuando un rastrellamento a tappeto
di santuari terroristi nel paese, nonostante le migliaia di arresti. Il tutto,
in un paese che ha avuto 150.000 morti tra il 1991 e il 1998 e che negli ultimi
otto anni ha avuto non meno di 400 morti all’anno per iniziative terroristiche.
Di più, l’attentato di Algeri dimostra che ormai i terroristi sono riusciti a
uscire dalle sacche periferiche in cui erano stati costretti dalla feroce
repressione governativa, con epicentro in Cabila, in cui da decenni agisce un
forte movimento popolare autonomista berbero, e ormai sono in grado di nuovo di
muoversi liberamente dentro lo spazio metropolitano di Algeri. Segno evidente
di nuovi legami non solo militari, ma anche politici, con il tessuto delle
moschee cittadine, da sempre epicentro del fondamentalismo, anche se da decenni
sono sottoposte ad un pesante e occhiuto controllo delle forze di sicurezza.
L’attentato di
Baghdad, al di là del numero contenuto delle vittime, segnala anch’esso una
clamorosa capacità d’iniziativa, effetto di complicità diffuse e
incontrollabili. L’esplosione è infatti avvenuta nella buvette del Parlamento,
in piena Zona Verde, sotto un minuzioso controllo militare americano.
Ma –una volta
evidenziata questo elemento- va detto che a Baghdad si è avuta solo una
ulteriore conferma di una forte tendenza al collasso della società irachena,
successiva alla scomparsa del tallone di ferro di Saddam Hussein. L’elemento
preoccupante, di importanza strategica della situazione irachena è che ormai la
violenza dei terroristi è rivolta al 90% non nei confronti degli “occupanti”,
non nei confronti delle stesse forze di sicurezza irachene che collaborano con
loro, ma contro la popolazione civile. In Iraq, musulmani massacrano musulmani,
sgozzano professori davanti agli alunni, massacrano lavavetri, massaie al
mercato, fedeli nelle moschee e non solo secondo le direttrici di uno scontro
settario tra sciiti e sunniti. Il tessuto stesso della società irachena, in
tutti i suoi gangli, è attraversato da una violenza assassina intermusulmana
che ha il suo aspetto più chiaro nella serie infinita di violenze di cui sono
oggetto studenti, insegnanti, scolaresche intere.
In Iraq tutto quanto
accade non a causa di un improvvido intervento americano –che al massimo ne è
una concausa- ma perché è in atto una vertiginosa “tendenza al collasso” della
società arabo islamica che solo la miopia e l’ignoranza del pensiero
politically correct può interpretare come “risposta” a iniziative
dell’occidente e che ha avuto infiniti precedenti in Libano e in Algeria. Tutto
il tessuto sociale iracheno è attraversato e sconvolto da una concezione della
vita segnato dallo jihadismo, dall’esaltazione della cultura della morte, della
punizione dei “falsi musulmani” (compresi i peccaminosi frequentatori di
Internet cafè o le ragazzine che osano andare a scuola).
Ma ora l’Algeria con
i suoi attentati ci dimostra che questo fenomeno non è affatto la conseguenza
della “guerra americana”, e che è invece
insito nelle società musulmane contemporanee (e di nuovo, il Libano di oggi
conferma quella tendenza. Questa tendenza al collasso, questa concezione
jiahdista, questa esaltazione del martirio, questo massacro di musulmani a
opera di musulmani non iniziano infatti con il 2003 di Baghdad, con la caduta
di Saddam Hussein. Iniziano invece nel 1975 in Libano (con quel massacro di
Tell al Zatar che nessuno vuole ricordare, anteprima tutta araba di Sabra e
Chatila) e nel 1992 in Algeria, in un paese che nulla ha a che fare con l’area
d’influenza americana, che era semmai alleato al blocco socialista, in una
nazione guidata da una élite nazionale forgiata da una vittoriosa guerra di
liberazione nazionale, in un paese dalle straordinarie, immense, ricchezze
naturali e dalle potenzialità economiche quasi di livello europeo non solo nel
settore del petrolio, ma anche (quantomeno sino al 1963, quando i francesi
fuggirono) anche nell’agricoltura e nel settore dei trasporti e delle
comunicazioni.
Il jihadismo, gli
sgozzamenti di donne e bambini, i mujhaedin che massacrano il proprio popolo
inerme, che sgozzano interi villaggi di contadini, nasce in Algeria nel 1992 e
ha un padre e una madre. Il padre è il rovinoso fallimento della gestione del
potere e dell’economia da parte dell’élite nazionale del Fln che ha condotto la
guerra di liberazione, che ha buttato il paese in una voragine di corruzione,
sprechi, falò di miliardi e miliardi di dollari in progetti dissennati. La
madre è la religione musulmana, o meglio: l’affermarsi di un vero e proprio
scisma religioso in campo sunnita che risente prepotentemente degli effetti del
wahabismo saudita e che ha nell’alveo culturale dei Fratelli Musulmani il suo
maieuta. Di più, il jiahdismo che esplode nel 1991 in Algeria e che lascia sul
terreno 150.000 morti (tre volte tanti quelli dell’Iraq a oggi) si collega
palesemente a quella guerra dentro la guerra che il Fnl ha condotto negli anni
cinquanta contro gli algerini stessi. Nel mio Libro Nero dei Regimi Islamici
ricordo le migliaia di algerini a cui vennero tagliati il naso o le mani dai
“partigiani” del Fln perché violavano la proibizione di fumare, e le decine di migliaia di algerini
massacrati da algerini perché si rifiutavano di pagare il “pizzo” ai
“partigiani” o perché parteggiavano per altre formazioni nazionaliste, che pure
erano in armi contro i francesi.
Il bagno di sangue
dell’Algeria ha dato il via ad un circuito infernale di proselitismo del
jihadismo fondamentalista che ha immediatamente trovato la sua sponda naturale
in Afghanistan. Qui, dopo la caduta dell’Urss e il suo ritiro da Kabul, la
miscela esplosiva che già era deflagrata in Algeria, trova un formidabile
volano in cui si mescolano le attività militari di mujaehdin jhaadisti
provenienti da tutti i paesi arabi con l’indottrinamento, la formalizzazione di
un “quartier generale” jihadista, dotato di una sua autonoma ideologia che
aveva nell’egiziano Abdullah Azzam il principale riferimento sia teologico che
militare. Qui, il wahabismo si incrocia con le elaborazioni più moderne dei
Fratelli Musulmani egiziani allievi di Sayyed Qutb, si rafforza con l’incontro
con il Deobandismo indiano (scuola teologica fondamentalista fondata
nell’ottocento a Deoband) e crea quella miscela che produce il fenomeno dei
Talebani e di al Qaida.
Tutto questo è noto,
ma quello che oggi l’attentato di Algeri dimostra, che grida al mondo la sigla
che l’ha rivendicato –al Qaida del Magreb- è che se è vero che gli Usa hanno
commesso formidabili errori in Iraq e non sono riusciti a sconfiggere il
jihadismo, un identico e ben più grave fallimento si è verificato anche in
Algeria, la dove gli americani non hanno mai messo piede, in un paese arabo che
non ha nulla a che fare con la Palestina e con Israele, in cui, semmai, la
politica di contrasto al terrorismo islamico è stata ispirata dall’Europa. E’
la Francia di Mitterrand e Chirac a appoggiare la decisione di invalidare le
elezioni del 1991 che avevano assegnato la vittoria agli islamisti del Fis.
Sono i servizi segreti francesi a collaborare –dichiaratamente- con quelli
algerini per condurre la “guerra sporca”, che vede l’armata algerina massacrare
non meno di 50.000 concittadini, molto spesso inermi contadini, non combattenti
e a fare non meno di 10.000 desaparecidos.
Fino all’altro ieri,
si poteva sostenere che la risposta algerina e europea, o meglio, francese, al
terrorismo, aveva funzionato, che il terrorismo era stato ridotto a fenomeno
sicuramente cronico (400 morti l’anno sono comunque una cifra enorme), ma
marginalizzato e che il paese, straordinariamente sostenuto dall’Ue e dal Fmi
era riuscito a riavviare persino una timida ripresa economica.
Ma la beffa dell’attentato
riuscito al Palazzo di Algeri, la salvezza del tutto casuale dello stesso
premier Belkacem, dimostrano che l’idra è risorta.
L’Algeria di ieri
come quella di oggi, ridicolizza tutte le teorie del fondamentalismo e del
terrorismo islamici quale movimenti “reattivi” a colpe vere o presunte vuoi
dell’occidente, vuoi della globalizzazione. Dimostra che sono misere tutte le
letture del terrorismo arabo legato a fenomeni nazionalistici, di “terra”, che
pure vanno per la maggior, non solo nella sinistra progressista.
L’Algeria sunnita,
così come il Libano e la Palestina della guerra civile a bassa intensità –che
continua- tra al Fatah e Hamas con uno-due morti al giorno- dimostrano che i
due scismi islamici che hanno sconvolto la umma nel novecento, sviluppi deformi
della teologia musulmana, sono fenomeni assolutamente autoctoni, nati solo ed
esclusivamente dentro l’Islam e in esso cresciuti con sempre maggiore consenso.
Lo scisma wahabita salafita dei sunniti algerini, iracheni o afgani (così come di
quelli sudanesi, marocchini, yemeniti, giordani, pakistani, indonesiani o
filippini) si ritrova unito da una concezione del jihad –della “conversione
attraverso la violenza” come magistralmente spiegato da papa Ratzinger a
Ratisbona- che è identica a quella dello scisma khomeinista che vediamo
all’opera nell’Iran di Ahmadinejad (con una straordinaria raffinatezza
politica), nel Libano di Hezbollah o nell’Iraq di Moqtada Sadr. I due scismi
peraltro si contrastano e spesso si odiano –retaggio storico sin dalla nascita
del movimento wahabita nel 1700- ma spesso, vedi Hamas, si incontrano.
Due scismi religiosi,
radicati nella storia millenaria dell’Islam che hanno introdotto in quella
religione un precetto religioso fondante terribile, che ne spiega la violenza e
la ferocia: il culto della morte, l’esaltazione del martirio.
E’ questo il
terribile lascito di Khomeini, che è riuscito a convincere ormai milioni di
musulmani sciiti come sunniti di un nuovo precetto: il martirio deve essere obbiettivo materiale,
concreto, da perseguire qui ed ora da parte del fedele. Un’aberrazione che però
oggi riscuote un consenso impressionante in una immensa platea musulmana.
Da qui,
l’incomprensione di tanta parte della cultura occidentale del fenomeno, le
balbettanti e ridicole analisi sul terrorismo “reattivo”, sulla “colpe
dell’Occidente”.
L’Occidente, semmai,
si trova oggi di fronte ad un nuovo 1933, ma si rifiuta di prendere atto, come
allora, che una ideologia totalitaria, basata sulla subordinazione della donna,
sull’imperio del “partito unico” (Hezbollah) che consegna all’apostasia chi non
ne riconosce i precetti di vita, che esalta la cultura e la pratica della
morte, che si espande con la violenza assassina, riscuote un largo seguito di
massa.
Abbiamo di fronte un
vero e proprio “fascismo islamico” (i puristi contestino pure la maggiore
precisione del termine “nazismo”) con larga base di adesione popolare, che ha
al suo centro, di nuovo, la concezione escatologica della uccisione degli ebrei
e della distruzione di Israele come dovere religioso, in obbedienza a quel
terribile Hadith musulmano, parte fondante della Sunna che campeggia nello
Statuto di Hamas e che recita: “ Il
Profeta -le benedizioni e la Pace di Allah siano con Lui – dichiarò: “L’ultimo
giorno non verrà finché tutti i musulmani non combatteranno contro gli ebrei, e
i musulmani non li uccideranno e fino a quando gli ebrei si nasconderanno
dietro una pietra o un albero, e la pietra e l’albero diranno: “O musulmano, o
servo di Allah, c’è un ebreo nascosto dietro di me – vieni e uccidilo; ma
l’albero di Gharqad non lo dirà, perché è l’albero degli ebrei”.
Il fine della storia, l’apocalisse imminente,
si compiranno solo quando “i musulmani non uccideranno gli ebrei” e la natura
–l’albero e la pietra- collaboreranno con loro.
Questo ci dicono.
Questo dovremmo, almeno, capire.