“In alto a destra” c’è solo la grande confusione intellettuale dei farefuturisti

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“In alto a destra” c’è solo la grande confusione intellettuale dei farefuturisti

26 Settembre 2010

Gli intellettuali cosiddetti “frondisti”, quelli che a partire dagli anni ’30 combatterono il fascismo dall’interno, rischiavano la galera, il confino o la prima linea in uno degli avventurosi fronti di guerra del Regime. Gli intellettuali che hanno puntellato fino ad oggi la fronda di Gianfranco Fini dentro il PdL rischiano molto meno: qualche comparsata in un salotto televisivo o la citazione sulle pagine di “Corriere” o “Repubblica”. Gioco abbastanza facile grazie agli effetti speciali del loro impegno “metapolitico”, alla loro capacità di diffondere idee velleitarie, confuse, contradditorie. Per giunta poco credibili se associate alla storia politica del Presidente della Camera. 

Così ci sembra leggendo In alto a destra. Attorno a Fini: tre anni che sconvolgono la politica (Coniglio editore), antologia di articoli tratti da “Secolo d’Italia”, “FFwebmagazine” e “Charta minuta”; volume uscito nel luglio scorso, dunque prima dell’abbozzo di scissione che ha offerto alle Camere l’inedita situazione di un partito diviso in due distinti gruppi parlamentari.

Il “primo libro di testo ufficiale sulla politica finiana” si potrebbe forse giudicare dalla copertina: l’atmosfera è tale da far virare lo stile del disegnatore Riccardo Mannelli, solitamente di sapore espressionista, verso il realismo socialista. Il Fini ritratto sopra il titolo ha infatti lo sguardo puntato verso un alto orizzonte, come certi Stalin e Mao. È invece interessante leggere anche le riflessioni scritte dal 2007 fino a ieri da giornalisti e professori come Alessandro Campi, Umberto Croppi, Luciano Lanna, Flavia Perina, Filippo Rossi e Annalisa Terranova.

La quarta di copertina ci informa del fatto che tutti gli “autori sono teste libere e pensanti, che non prendono ordini da nessuno, che non sono pagati da chicchessia” (dunque la notizia è che la fondazione Fare Futuro e l’ex quotidiano del Msi non pagano i collaboratori?). Non si fa neanche mistero del fatto che “da tempo non ne fanno passare una all’asse Lega / Berlusconi”; i famosi “falchi”, insomma. Comunque “convinti che Destra e Sinistra non solo rappresentino categorie politiche vecchie ma sono diventati luoghi intransitabili”.

Qui il riferimento è alla cosiddetta “nuova sintesi” della diade politica novecentesca teorizzata negli anni ’80 dalla “Nuova Destra”. Si sa che il principale teorizzatore di quella eresia missina era Marco Tarchi, espulso dal partito per volontà del segretario Almirante e del suo principale antagonista già ai tempi del Fronte della Gioventù: Fini. Tarchi, ora brillante politologo, ha più volte negato ogni filiazione fra quell’esperienza e l’odierna “Destra Nuova”. Basandosi sui testi prodotti, non solo sullo stupore di trovare suoi antichi sodali nei pressi di chi in passato epurò le loro idee.

In alto a destra è curato da Giuliano Compagno, “studioso di Georges Bataille e del pensiero non-conformista francese degli anni Trenta”, collaboratore dell’Assessorato alla Cultura di Roma. In nome dell’“ampia polisemia di riferimenti concettuali”, ci informa nell’introduzione che la parola Destra nel titolo “avrebbe potuto non comparire affatto”, ed infatti si esprime come il Bifo di Radio Alice (“i processi di deterritorializzazione appaiono irreversibili e il multiculturalismo un fatto compiuto”), ma trent’anni dopo. Probabilmente ha ragione Marcello Veneziani nel dire che la destra finiana è una sinistra in ritardo.

Inutile però fare a Compagno il nome di Veneziani; si vanta di non aver letto neanche un’opera dello scrittore pugliese, avendogli preferito Foucault. I suoi interventi sono di sperticata lode al relativismo postmoderno, ma con dei limiti. Ad esempio attacca coloro che fanno revisionismo storico sul processo di unificazione nazionale poiché “scherniscono la Nazione unita e il sacrificio dei patrioti del nostro Risorgimento” e “ce ne vuole per definire retorica la lotta dei ragazzi italiani del nostro Risorgimento contro l’oppressione centralista dell’impero austro-ungarico”. Inoltre auspica uno “Stato sovrano in materia di costume, di principi e di comportamenti”; frase che, messa così, dovrebbe preoccupare ogni sincero libertario (ciò che lo Stato dà, può anche togliere).

Ma forse siamo troppo provinciali e dovremmo seguire il consiglio di Compagno: andare a vedere “come funzionano le cose in Danimarca, in Olanda”, “dare un’occhiata” in quel di Londra. D’altronde lui sente “più vicino un indiano d’America di un condomino iracondo”; il comandamento di tentare di amare il suo prossimo (anche se si tratta di un vicino di casa rompiscatole) non lo rispetta.

Non può mancare il “gianburrasca” Filippo Rossi; l’uomo che ha sondato la carenza berlusconiana di spirito liberale nelle vesti di portavoce di Scajola ed è allora fuggito sotto l’ala protettrice di quel Fini così notoriamente autoritario nella ventennale gestione di Msi e An.  Lo ha fatto per “uscire dal tunnel del cattiverio” della destra con la “bava alla bocca”, politicamente scorretta ed ancora illusa dalla possibilità di un “pensiero forte”. Rossi crede nella riduzione del popolo di centrodestra offerta da Michele Serra: quelli che scorrazzano in Suv e non leggono. Esorcizza tale suo incubo con “appropriazioni indebite”, mescola Dalì (monarchico e cattolico) con Marinetti (repubblicano ed anticlericale), l’”antimoderno” Le Clézio con l’ambizione dichiarata di scrivere “il “manifesto del nuovo futurismo”.  In cultura ci si può “dichiarare erede di chiunque”, vero, gli innesti fanno bene. Ma l’albero si vede dai frutti; se tutta questa immaginifica metapolitica arriva a dichiarare dopo lo scontro del 22 aprile in Direzione Nazionale che quella di Fini è stata “azione bella perché inutile a se stessi”,  è evidente che manca un po’ di realismo.

Stesso discorso vale per Lanna: sono affascinanti i suoi discorsi sull’importanza dell’immaginario come superamento dell’ideologia, i richiami a Pound, Jünger, Longanesi, Pannunzio, alla matrice libertaria della destra ed alle “mitologia ed iconografia del fuorilegge”. È giusto ricordare ed ispirarsi  all’"eretico" Beppe Niccolai, ma sarebbe doveroso ricordare che Fini la pensò all’opposto fino a un lustro fa. È anche vero, come sostiene, che i postmissini non furono sdoganati dal solo Berlusconi ma da un processo storico più complesso e confuso. Però si esagera sulle ipotetiche magnifiche sorti di An anche senza Forza Italia accanto; basta andare a rivedersi le percentuali di voti al Nord nel ’94 (dove corse fuori dal Polo), poco incoraggianti.

Flavia Perina si entusiasma per il “non ci piace l’ordine delle caserme” di Fini e se la prende con Sarah Palin (per le “sue impolitiche iperboli e bigotterie teocon”). Sarà stato lo “spirito ottimista e libertario che è nel Dna del secondo sesso” a farle dimenticare gli anni di ibernazione che il suo odierno referente politico ha fatto subire alla minoranza rautiana.

Infine Annalisa Terranova riesce con qualche acrobazia a definire “sano realismo” l’ora scolastica di Corano ed a lodare il Fini novello entusiasta del ’68. Anche in questo caso c’è una rimozione: solo una decina di anni fa, nel libro intervista con Marcello Staglieno (Un’Italia civile) Fini definiva l’anno del Maggio francese e di Valle Giulia una “caldaia di disordinato pressappochismo e demagogia”.  

Per concludere, siamo d’accordo su di una cosa con la Terranova: il salvabile nell’insegnamento di Julius Evola è l’imperativo di mantenere una certa “distanza dal proprio tempo”. Questo è il consiglio che diamo agli intellettuali finiani. Oltre ad aggiungere che le loro idee sarebbero più credibili se sponsorizzate da qualcun altro.