In America dopo Trump, c’è ancora Trump?

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In America dopo Trump, c’è ancora Trump?

In America dopo Trump, c’è ancora Trump?

29 Novembre 2020

Non c’è bisogno di scadere nel complottismo per registrare alcuni dati di fatto. Al di là dei “record” rispettivamente sbandierati, queste elezioni americane si sono giocate sul filo (basterà considerare i riconteggi scattati per esiguità del distacco) e, come diremo più avanti, sono tuttora caratterizzate da molteplici elementi di incertezza, sia rispetto all’intrecciarsi dei risultati sul fronte presidenziale e parlamentare, sia rispetto alle implicazioni che un quadro così complesso determinerà. Inoltre, è un dato di fatto che il vero convitato di pietra della contesa – il Covid – abbia non solo mutato profondamente gli orientamenti di un elettorato che in assenza della pandemia avrebbe con ogni probabilità premiato la politica economica del Presidente uscente, ma anche cambiato le regole del gioco rendendo la partita meno garantita.

Lo ha ben spiegato Federico Punzi in un articolo pubblicato qualche tempo fa su “Atlantico quotidiano”. “La via legale è una via molto stretta – scriveva Punzi nell’immediato post-voto -, sia per la difficoltà di dimostrare brogli sistematici nonostante l’opacità dello scrutinio e l’inaffidabilità del voto per posta, sia per i troppi stati coinvolti”. Epperò, rendendo universale in molti stati il voto per posta con la conseguenza di cambiare “radicalmente il sistema di voto per le presidenziali”, a seguito del Covid è stato aperto “un vaso di Pandora che rischia di minare la credibilità del processo elettorale”. In questo quadro, una controversia sul risultato non è un colpo di Stato. E la scelta di Donald Trump di dare comunque avvio alla transizione lo chiarisce.

Sgomberato il campo da questa oziosa discussione – la quale più che l’analisi ha riguardato la cronaca, con incursioni nel post-politico come la sostanziale discesa in campo di media mainsream e management dei social network nella battaglia legale -, restano sul campo le questioni vere sul futuro della politica americana dopo le presidenziali Usa2020.

Volendo tracciare un riassunto ragionato dei risultati al momento registrati, è il seguente. Biden ha vinto, ma Trump politicamente non ha perso (e non soltanto per l’incremento dei consensi rispetto alle elezioni di quattro anni fa). Soprattutto, la mancata conquista del Senato segna l’estrema debolezza dei Democratici, mentre il buon risultato messo a segno dai Repubblicani tanto al Senato quanto alla Camera dischiude per loro la prospettiva di un futuro quantomai aperto. Entrambi i partiti appaiono insomma in fibrillazione, ancorché per ragioni diverse e per certi versi speculari. E’ su di essi che bisogna dunque concentrarsi per immaginare le conseguenze possibili di queste strane elezioni.

Fronte democratico. Immaginare Joe Biden come un uomo di paglia nelle mani di Obama o della sua vice Kamala Harris potrebbe rivelarsi una lettura un po’ frettolosa. Dalle mosse iniziali sembra emergere uno scenario diverso. Le prime nomine proposte (a cominciare dal segretario di Stato e dal consigliere per la Sicurezza nazionale) fanno infatti immaginare una linea “moderata”, in grado di occhieggiare anche all’ala meno dura e più conciliante del mondo repubblicano. E, a ben vedere, questa è stata in fondo la chiave che ha consentito a Biden di prevalere ai punti. Si pensi, in proposito, a quanto accaduto in Arizona e al ruolo lì svolto dall’attivismo della vedova McCain.

Fronte repubblicano. Qui si registrano più interrogativi che certezze. La “resistenza” di Trump, oltre che dalla legittima esigenza di sottoporre a un vaglio i dubbi sulla regolarità del voto, è stata finalizzata a garantirsi una sorta di salvacondotto presidenziale o è prodromica alla decisione di restare nell’agone politico per provare a riconquistare la Casa Bianca tra quattro anni? E ancora. La presa virtuale del Senato (50 seggi ai “rossi” repubblicani contro i 48 degli avversari, due indipendenti e due ancora da assegnare) sarà utilizzata dal partito dell’elefantino per condurre un’opposizione dura e pura nei confronti dell’amministrazione democratica o servirà a contrattare da una posizione di forza con Biden, a fare da sponda al suo moderatismo e, per questa via, a determinare un cambio di linea nel partito ad opera di quanti continuano a percepire The Donald come un intruso?

E’ evidente che le opzioni sono ancora tutte aperte e tutte in campo. Ed è altrettanto evidente che la direzione che gli eventi imboccheranno è destinata a riverberarsi sulla presidenza Biden e a imprimerle un segno che ad oggi non può ancora essere determinato con certezza. Il ventaglio delle possibilità è assai ampio. Si va da una politica di “non rottura” con la linea Trump (soprattutto per quanto riguarda la politica estera e l’attenzione preminente al Pacifico), coniugata con uno stile meno aggressivo e “politicamente scorretto” e con una minore propensione all’isolazionismo, a una sostanziale ripresa del disimpegno di impronta obamiana e a una progressiva attribuzione di centralità al tema dei “nuovi diritti” fino al punto di alterare l’originario equilibrio tra democrazia e repubblicanesimo popolare che ha fin qui rappresentato quel substrato di identità condivisa che ha fatto grande l’America. Fra un estremo e l’altro, una vasta gamma di gradazioni intermedie.

Se sul fronte della determinazione del risultato siamo insomma prossimi al finale di partita, un minuto dopo se ne aprirà un’altra. Non meno importante, non meno decisiva per il resto del pianeta. Il dopoguerra che ci troveremo tutti ad affrontare dopo l’emergenza Covid ci consegnerà un mondo diverso, attinto da una crisi economica con pochi precedenti, sconvolto nei suoi assetti geopolitici, preda di un insidioso ridisegno di equilibri e poteri. L’Occidente è al tempo stesso vittima ed epicentro di queste dinamiche. Per questo, anche per questo, il futuro degli Stati Uniti d’America non può lasciarci indifferenti.

(Estratto da un testo che sarà pubblicato in inglese sul prossimo numero di “Longitude”)