In Birmania non si muore solo per la libertà

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In Birmania non si muore solo per la libertà

02 Novembre 2007

In Myanmar i monaci tornano in piazza ad un mese dalla
brutale repressione che il regime ha attuato. Sono stati giorni tragici,
testimoniati dalle telecamere di tutto il mondo, nonostante i generali abbiano
utilizzato ogni forma di terrore per imporre la censura; spettri di paura ed
orrore pronti a tornare ad insanguinare le strade della capitale Yangon e non
solo: settantatre bonzi in preghiera hanno manifestato pacificamente a Pakokku
(il principale centro di formazione religiosa, con circa 80 monasteri), mentre
l’ondata di arresti nei confronti di dissidenti ed oppositori sta continuando
senza soste.
L’ex Birmania è un paese ormai in ginocchio, affamato da una quasi
cinquantennale dittatura che fa affari petroliferi con Cina e India – in cambio
di soldi e protezione -, coltiva progetti nucleari con la Russia, ma riduce la sua
popolazione alla fame. La gente non muore solo in nome della libertà e già da
prima che gli occhi mediatici si ridestassero dalla letargica indifferenza.

I bilanci dello Stato, infatti, per il 50 per cento vanno a
finanziare le forze armate, mentre solo lo 0,3 per cento del pil è destinato
alle cure mediche: per l’Organizzazione Mondiale della Sanità il sistema è tra
i peggiori al mondo, davanti solo alla Sierra Leone che si posiziona al
191esimo posto. All’ordine del giorno, quindi, decessi per malaria,
tubercolosi, infezioni postume alla gravidanza e, quasi impotenti, si assiste
al propagarsi di una delle più violente epidemie di aids di tutto il Sudest
asiatico. I contagi aumentano sia perché la Birmania è una delle direttrici principali del
traffico di eroina, sia per il dilagare, a causa della povertà, del commercio
sessuale senza alcuna precauzione. Il dato diventa ancora più drammatico nelle
zone di confine, dove vivono – costrette dal regime – le minoranze etniche e
dentro le quali è difficile raccogliere dati ufficiali sulle condizioni del
contagio, poiché le Ong sono continuamente ostacolate nel loro lavoro dai generali,
un fatto denunciato anche da Medici Senza Frontiere. MSF cerca di garantire le cure, le medicine e soprattutto una
completa e costante terapia. Ad oggi l’organizzazione umanitaria sta curando
con antivirali 950 pazienti sieropositivi, 895 affetti da tubercolosi e 553 in Hiv. Il rapporto Unaids dell’Onu calcola in Birmania
360.000 malati di aids.

L’altro elemento da combattere è la crescente diffusione sul
mercato interno di farmaci contraffati: mesi fa un’organizzazione umanitaria ha
acquistato 100.000 confezioni di artemisinina,
un farmaco utilizzato contro la malaria, rivelatosi poi falsificato. Da uno
studio svolto da ricercatori africani e pubblicato sulla rivista Medicine le pillole contenevano una
forte percentuale di gesso e amido. Questo rappresenta la punta dell’iceberg di
un commercio che usufruisce delle vie di collegamento già solcate dal traffico
della droga. La produzione spesso avviene o su base ridotta, all’interno di
piccole botteghe, o su scala industriale e gli epicentri rimangono l’India e la Cina, sebbene il governo di
Pechino si stia adoperando per arginare questo mercato illegale.

Il sistema sanitario del Paese, inoltre, si basa sugli
ambulatori per la popolazione, gli ospedali statali per i dipendenti pubblici e
i loro familiari (entrambe le strutture sono carenti e con pochissimi farmaci
spesso provenienti dalla Cina) e infine i nosocomi militari, dove si curano i
membri del regime, qui – nemmeno a dirlo – si trovano i migliori macchinari e
farmaci occidentali.