In Francia non ci sono padroni del voto

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In Francia non ci sono padroni del voto

26 Aprile 2007

Nel 1962 il Generale de Gaulle volle che il Presidente della Repubblica francese fosse eletto dal suffragio universale per sconfiggere il ritorno dei partiti: per evitare che, una volta terminata l’emergenza determinata dalla Guerra d’Algeria, i partiti che si erano rivolti a lui al fine di salvare la nazione dalla guerra civile imminente tornassero a dettare legge. Quando nel 1965, in occasione della prima elezione diretta del Presidente, gli elettori lo costrinsero al secondo turno, commentò sconsolato: “si possono costruire i confessionali per scacciare il diavolo. Ma se il diavolo si ficca nel confessionale, non c’è più niente da fare”. Oggi però, valutando l’evoluzione della sua Repubblica, il Generale si sarebbe certamente consolato: i confessionali sono riusciti a scacciare il diavolo. Senza ombra di dubbio, infatti, il Monarca repubblicano francese viene eletto dal popolo. I partiti danno una mano: certamente importante, ma il loro ruolo resta di supporto.

Questa realtà la conoscono gli elettori francesi, la subiscono i politici francesi ma non la comprendono i politici italiani, soprattutto se sono di sinistra. Sennò non si sarebbero messi a favoleggiare di alleanze decisive tra Ségolène e Bayrou, scorgendovi la proiezione dell’italico accordo tra Ds e Dl. Roba tutta da ridere. Bayrou non ha dato indicazione di voto perché non poteva farlo: i suoi elettori non avrebbero gradito e, in ogni caso, solo una parte di loro lo avrebbe seguito. Nelle elezioni presidenziali, infatti, gli elettori francesi sono padroni del proprio voto. Le mosse dei leader esclusi dal ballottaggio, per questo, incidono solo relativamente. Assai di più conta, invece, quel che diranno e faranno i due sfidanti, secondo uno schema classico della V Repubblica smentito assai raramente: al primo turno si fa il pieno del voto identitario; al secondo si cerca di conquistare il centro dimostrandosi per questo in grado di rassembler la nazione.

Se si ha poi qualche nozione della geografia del voto in Francia, e si è consci di quanto oltr’Alpe siano radicati i comportamenti elettorali, si potrà comprendere un ulteriore elemento. I suffragi conquistati da Bayrou provengono dai bastioni centrali, terre che tradizionalmente esprimono un orientamento conservatore e moderato. E’ dunque plausibile che quegli elettori abbiano reagito negativamente verso il tentativo di Sarkò di limitare il voto di Le Pen attraverso messaggi forti dai toni radicali.  E’ altrettanto probabile, però, che essi difficilmente si spingeranno fino al punto di votare per una candidata socialista. Ciò, in ogni caso, certamente non accadrà perché glielo avrà detto Bayrou. Se vorrà conquistarli, Ségolène dovrà provare a parlare al cuore e alla mente di quegli elettori e, per questo, dovrà rendersi credibile come leader post-socialista con programmi e proposte concrete, assai più che affidandosi all’immagine e a qualche slogan pieno d’ambiguità. Così come per il suo sfidante Sarkò si pone il problema di rassicurare un elettorato che per ragioni tradizionali è ben disposto verso la destra moderata, senza che ciò lo limiti eccessivamente nel recupero del voto raccolto al primo turno da Le Pen e da De Villiers.

Non bisogna essere professori a Science Po per comprendere queste dinamiche. Ma per Prodi e compagni risultano troppo ostiche. Il provincialismo della sinistra italiana è senza limiti. Tra un’elezione diretta di un Monarca repubblicano e il colloquio tra Fassino e Rutelli dai palchi dei rispettivi congressi passano cinquant’anni di modernizzazione democratica che essa al più riesce ad annusare, senza però coglierne l’essenza.