In Germania i luoghi comuni sugli italiani non cambiano

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In Germania i luoghi comuni sugli italiani non cambiano

09 Gennaio 2008

Integrazione e rispetto delle proprie radici. Dovrebbero essere questi gli elementi in grado di garantire una pacifica convivenza tra persone di etnia e cultura diverse dimoranti sullo stesso territorio. Una ricetta estremamente facile che resta tuttavia sostanzialmente inattuata nell’intero Vecchio Continente. In Germania la questione dell’immigrazione, con ciò che essa si porta appresso, è da tempo all’ordine del giorno. Se è indubbiamente la comunità turca quella ad aver creato in passato il numero più elevato di problemi, anche gli Italiani emigrati in Germania sembrano non essere da meno. Va però preliminarmente rilevato come sia del tutto inopportuno considerare l’uomo in quanto facente parte di una collettività, tanto più se quest’ultima si chiama nazione italiana, un concetto che risultava vago già a Metternich.

Il quadro che ritrae questo mezzo milione di Italiani residenti nella Repubblica Federale è perciò tutt’altro che unitario, ma vario e sfaccettato. Secondo la descrizione che ne ha dato il settimanale Der Spiegel in un suo reportage della metà di dicembre, andrebbe tutt’oggi constatato un profondo scollamento tra la comunità italiana residente all’estero e quella d’origine. Per buona parte dei discendenti dei Gastarbeiter che valicarono le Alpi nel dopoguerra in cerca di lavoro, il tempo non sarebbe proprio passato: è come se costoro vivessero ancora immersi in quel periodo storico, come se l’Italia negli ultimi cinquant’anni non fosse minimamente cambiata. I problemi sarebbero gli stessi di allora: forti difficoltà di integrazione nel sistema scolastico tedesco (in particolar modo nei Licei), alto tasso di disoccupazione, scarsa comprensione e padronanza della lingua. A contraddire questa visione, pur certamente vera nei suoi tratti essenziali, v’è il riscontro che, con il passare del tempo, si sono fatti grandi passi avanti in direzione di una migliore coabitazione tra minoranza italiana e maggioranza tedesca; giunti ormai alla terza generazione, gli italiani di Germania si inserirebbero sempre di più e meglio (in particolare nella zona di Berlino) nel tessuto della società tedesca, sposandosi con tedeschi, acquisendo posizioni professionali importanti nell’establishment tedesco e dando un contributo determinante all’economia tedesca.

Ma – vi chiederete voi – com’è possibile una simile discrepanza di vedute, chi è che dice la verità? Semplice, tutti e nessuno. Il brutto vizio della sociologia è infatti quello di inventare astratte categorie (la nazione, la comunità, gli immigrati italiani e così via) considerandole come un tutt’uno e condendole di dati e statistiche al fine di dimostrare colpe e meriti di individuo, società e Stato. Insomma, il trionfo del costruttivismo e dell’arbitrarietà! In realtà, come un po’ dappertutto, esisterà l’italiano che si dà da fare, che ricerca l’integrazione, che ha una famiglia alle spalle desiderosa di vederlo frequentare persone del posto e non solo gli amici del circondario anch’essi immigrati; e dall’altro lato ci saranno invece le famiglie più conservatrici che da tre generazioni si rifiutano di parlare italiano e che spingono i propri figli a seguire la vocazione professionale del pater familias, impedendo loro di seguire il liceo e indirizzandoli invece verso istituti tecnici o di preparazione al lavoro (Sonderschulen).

Ma queste differenze, in patria e altrove, esisteranno sempre: non ci sarà nessun ambasciatore e nessuna organizzazione in grado di obbligare le persone a comportarsi diversamente, a meno che alla opinabile coercizione delle famiglie, si sostituisca l’ancor più discutibile coercizione dello Stato. Stato tedesco che con le sue leggi sul fenomeno migratorio degli anni ’90 si è categoricamente rifiutato di riconoscere la Germania come un paese di immigrazione, considerando i nuovi arrivati come lavoratori stagionali che prima o poi se ne sarebbero dovuti andare. In alcuni casi il Governo tedesco, con la complicità dei paesi d’origine, ha addirittura favorito il rimpatrio di alcune comunità straniere, impedendo loro di lavorare e costringendole all’inerzia. L’apertura dei confini insieme con la globalizzazione potranno invece dissuadere dalla chiusura governi riottosi, “mondi paralleli” e cenacoli dell’auto-ghettizzazione.

In ultimo luogo, mi si permetta un commento sulla mafia, considerata da Der Spiegel come il collante che tiene uniti i nostri connazionali in terra teutonica. Il legame tra il nostro paese e questa organizzazione malavitosa è infatti un cliché in grado da sempre di suggestionare molto certi tedeschi, ma, come ha detto il nostro capomissione a Berlino, Antonio Puri Purini, non c’è alcun legame di causa ed effetto che colleghi inequivocabilmente gli immigrati italiani a Cosa Nostra, così come non v’è alcun rapporto diretto e immediato tra immigrati turchi e terrorismo di Al Qaeda. Certo, ci sono più probabilità che un immigrato italiano in Germania sia in combutta con la mafia (vedasi Duisburg) di quanto possa esserlo un turco, ma ciò non è che un dato puramente relativo, tanto dal punto di vista geografico quanto da quello culturale, non la dimostrazione che le etichette e i luoghi comuni affibbiati ai popoli siano effettivamente veri.