In Iran si è aperta la battaglia per il dopo Khamenei

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In Iran si è aperta la battaglia per il dopo Khamenei

11 Luglio 2011

Un nuovo, inedito scontro di potere si è aperto nel vertice del regime iraniano. In apparenza è solo la riacutizzazione delle tensioni, in qualche modo fisiologiche, tra il presidente della Repubblica Mohammed Ahmadinejad e il Majlis, il Parlamento, sul tema caldo del potere di nomina dei ministri, in primis quelli del Petrolio e degli Esteri. Già all’inizio della legislatura il Majlis si era rifiutato di omologare la nomina di alcuni ministri scelti da Ahmadinejad e tensioni similari si erano già verificate nella precedente legislatura.  In realtà si tratta del prologo ad uno scontro, tutto interno alla componente più oltranzista, che diventerà sempre duro e definitivo in vista della successione all’ayatollah Ali Khamenei. Una contrapposizione che tocca le basi costitutive stesse della Repubblica Islamica e della sua prgmatica Costituzione.

Il sistema istituzionale iraniano si basa  su un check and balance articolato e complesso, tra presidenza della Repubblica e Parlamento (che ha effettivamente il potere di approvare o respingere la nomina di singoli ministri indicati dal Presidente) che è però ben diverso da quello delle democrazie effettive. Le due istituzioni infatti, dopo la riforma del 1989, sono sottoposte di fatto al potere sovraordinato del Giureconsulto, del Faqih, del Rahabar,  la Guida della Rivoluzione (oggi l’ayatollah Ali Khamenei), che oltre al comando delle Forze Armate, della Polizia, dei Bassiji e dei Pasdaran e alla direzione effettiva del sistema giudiziario, sovrintende alche al controllo della televisione e della radio e alle potentissime Fondazioni che controllano buona parte dell’economia del paese. Non solo: ampi poteri di controllo e di “bilanciamento” delle attività del Presidente, sia su quella del Parlamento sono svolti dal Consiglio dei Guardiani, dal Consiglio per i Pareri di Conformità e anche dalla Assemblea degli Esperti (che ha il potere non solo di nominare il Faqih, ma anche –in via del tutto teorica- di dimissionarlo).

In buona sostanza è un voluto labirinto di istituzioni e di bilanciamenti che esercitano poteri dai confini formali molto labili che si limitano a fotografare i rapporti di forza esistenti all’interno di una ristrettissimo “gruppo di comando” composto da non più di 50 gerarchi al cui centro non vi è affatto il potere esercitato da eletti dal voto popolare (Presidente e Majlis), ma quello della Guida della Rivoluzione e dei due Consigli più importanti: il Consiglio dei Guardiani e il Consiglio degli Esperti.

Il tutto, sia ben chiaro, con una dialettica in qualche modo “democratica” tutta e solo interna alla logica di piena e assoluta accettazione della logica del Partito di Dio. Chi se ne pone all’esterno o desidera riformarlo, o non viene ammesso alle elezioni (centinaia di candidati ad ogni turno), o viene emarginato, represso e infine imprigionato, se non impiccato. Il destino di Mir Hossein Moussavi e di Mehdi  Karrubi, oggi agli arresti domiciliari dopo la feroce repressione del movimento dell’Onda Verde che li sosteneva dopo le elezioni palesemente truccate del 2009, è la riprova di questa  democrazia “ristretta” al solo funzionamento interno del regime e delle sue gerarchie.

All’interno di questo sistema chiuso di regime, in tutto e per tutto antidemocratico nei confronti di chiunque si opponga, anche in nome di timidissime riforme –ma estremamente dinamico nei rapporti tra le sue componenti- non valgono dunque tanto regole istituzionali chiare e formalmente definite, quanto i rapporti di forza reali. Rapporti di forza che hanno al centro gli straordinari poteri di comando –ma anche di mediazione continua- del Faqih, oggi dell’ayatollah Ali Khamenei.

Questo è il primo punto da avere presente per comprendere come lo scontro che si è aperto tra il Presidente Ahmadinejad e il Majlis, presieduto da Ali Larinjani, dopo che il primo ha dimissionato  a dicembre, il ministro degli esteri Manuchehr Mottaki e poi, a maggio,  il ministro del petrolio Massud Mir Kazemi, assumendo l’interim del dicastero più importante del paese e il ministro responsabile dei Servizi Segreti Heydar Moslehi. Subìto l’immediato ordine dell’ayatollah Khamenei di reintegrare al suo posto quest’ultimo, Ahmadinejad è letteralmente scomparso per ben 12 giorni dalla scena politica iraniana, con conseguenti voci di una sua morte, di un suo imprigionamento e via disinformando.  Riapparso in pubblico, a fine maggio, il Presidente ha riaperto la sfida allo stesso Khamenei, rilanciando e ha assunto personalmente l’interim del dicastero del petrolio.

La novità che è emersa in questo scontro al calor bianco non è  solo dovuta alla formale denuncia alla magistratura penale da parte del Majlis della “aperta violazione della Costituzione” da parte di Ahmadinejad. In realtà, la novità più interessante è in questo scontro è stata lanciata dai suoi avversari una accusa dal significato esiziale nel lessico politico iraniano: “deviazionismo”. Termine che oggi in Iran ha esattamente lo stesso significato che aveva nell’Urss stalinana al tempo delle “purghe” degli anni trenta. E’ l’anatema lanciato contro chi sceglie strade “extra moenia”, rispetto al ristretto ambito del Partito di Dio (Hezbollah) e quindi diventa un “Mohareb”, nemico di Allah, destinato alla forca.

La gravità di questa crisi di regime  deriva dal fatto che l’ayatollah Khamenei, nel momento stesso in cui è intervenuto a fine maggio per mediare nel braccio di ferro tra Ajmadinejad e Majlis, ha sì affermato che il presidente “fa un buon lavoro” e  chiesto che “ Parlamento e il governo cooperino per il bene della Repubblica islamica”, ma ha anche esortato a  “isolare i deviazionisti, perché il nemico cerca di provocare divisioni tra i dirigenti”.

Il punto focale della polemica è che il principale “deviazionista” sarebbe  Esfandiar Rahim Mashai, ascoltatissimo primo consigliere di Ahmadinejad, suo consuocero e soprattutto suo candidato alle prossime elezioni presidenziali del 2013 (in cui l’attuale presidente non può concorrere per il terzo mandato consecutivo). Accusa non nuova da parte di Khamenei,  che il 23 luglio 2009 aveva ingiunto ad Ahmadinejad di annullare immediatamente la nomina di Meshai a vice presidente (ordine immediatamente subìto, ma subito eluso con la nomina a primo Consigliere del Presidente).

Ma  l’accusa di “deviazionismo” non è elevata contro Meshai –e quindi contro Ahmadinejad- solo dagli avversari del Presidente, ma è  stata contestata anche da quello che sino a pochi mesi fa veniva considerato uno dei principali alleati di Ahmadinejad : l’ayatollah ultra conservatore Mezbah Yazdi, considerato addirittura sua guida spirituale. Durissime, le contestazioni che Mezbah Yazdi  rivolge a Meshai, che accusa di tenere Ahmadinejad “nelle sue mani”: “Ho già detto ad amici vicini al Presidente che è plagiato al 90%; non capisco se si tratti di ipnotismo, di plagio o di relazioni con gli yogi, ma c’è qualcosa di anormale: Ahmadinejad ha dieci amici e si mette contro nove di loro per giustificare tutto quello che fa il decimo che credo intenda imporre al governo una organizzazione massonica”. Esplicite accuse di stregoneria, dunque, che hanno già portato in carcere come “stregoni” alcuni collaboratori stretti di Meshai; uno di questi Abbas Ghaffari, secondo quanto ha denunciato il sito iraniano Ayandeh.com, sarebbe “uomo dalle capacità speciali nel dominio della metafisica e in  relazione con mondi sconosciuti”.

Ma contro Meshai –e quindi contro Ahmadinejad- s’è levata anche la voce di un altro personaggio che sino a pochi mesi fa veniva dato come suo ferreo alleato: il generale Mohammed Jaafari, comandante dei pasdaran: “La nuova corrente deviazionista si nasconde dietro una personalità accettabile e popolare e in futuro agirà sicuramente contro la rivoluzione”. Elencati i termini formali della querelle e indicati i principali protagonisti, resta però il problema politico di fondo: qual è l’oggetto del contendere, su cosa si stanno dividendo i due schieramenti sorti nel campo ultraconservatore iraniano, dopo che, di comune accordo, hanno schiacciato sotto il tallone della repressione più feroce la componente “riformista”?

Purtroppo, circolano sui media occidentali–anche i più autorevoli- delle analisi di sconcertante banalità e superficialità, a partire da quella che descrive un Meshai inviso agli ultraconservatori perché ha detto: “L’Iran è amico di tutti i popoli, anche di quello israeliano”.  Frase, questa,  ripetuta e scritta cento volte dall’ayatollah Khomeini, che nulla toglie alla feroce campagna per “cancellare Israele dalla faccia della terra”, lanciata da Ahmadinejad su ispirazione anche di Meshai. Per un musulmano, Khomeini lo ricordava sempre,  popolo di Israele è parte, in quanto ebreo, della “Gente del Libro” ed è assolutamente ovvio che anche uno tra i peggiori e fanatici oltranzisti, nel momento stesso in cui si prefigge di abbattere lo Stato di Israele,  proclami la sua “tolleranza islamica” nei confronti degli ebrei che lo abitano.

In realtà, lo scontro è su tutt’altro piano e riguarda la confusa, ma elementare, nuova teoria di Ahmadinejad che oggi propugna un “Islam iraniano”: “E’ un Islam più vicino alla verità; l’adozione dell’Islam da parte del popolo iraniano è conseguenza del fatto che esso è più civilizzato e più avanzato di coloro che glielo hanno trasmesso”.  Ahmadinejad dunque, si appoggia su Meshai, a costo anche di rompere con suoi alleati da anni, per una ragione da non sottovalutare: sente il bisogno di affiancare alla politica di espansione e di imposizione della egemonia regionale che sin qui è riuscito a sviluppare, una dottrina ultrasciovinista di larga presa popolare. Ecco allora che gioca sul millenario odio che ha contrapposto sin dal settimo secolo gli arabi (che hanno trasmesso l’Islam agli iraniani), ai persiani, i soli in grado di elaborare un “Islam superiore”.

Vista la straordinaria capacità dimostrata da questo leader apparentemente dimesso nel sollecitare entusiasmi in Iran, come in tutta la umma, con la sua proposta di “creare un mondo senza sionismo”, non si può escludere che questa sua “dottrina”, per volgare e elementare che sia, riesca a fare presa in larghi settori della popolazione iraniana. Va infatti ricordato che Ahmadinejad nel 2009 non ha certamente ricevuto i 24 milioni di voti certificati dai risultati ufficiali nelle presidenziali, ma che sicuramente ne ha ottenuti almeno una ventina, perché è ben difficile che i brogli –indubitabili- possano superare il 20% del totale. Il blocco sociale che continua a identificarsi in lui, insomma, anche se minoritario, è ancora consistente e ora, proponendogli di identificarsi nel miraggio di  questo “Islam iraniano”, egli conta di imporre suoi candidati alle elezioni politiche del 2012, sconfiggendo Ali Larijani e Bagher Qalibaf, i leader suoi concorrenti nel blocco conservatore, per poi imporre nel 2013 un candidato a lui gradito nelle elezioni presidenziali.

Ma questa complessa manovra che supera i tradizionali confini del gioco tra correnti del regime, ha un orizzonte ben più ampio di queste due scadenze elettorali prossime e gioca su sponde in un certo senso sconcertanti. Il gruppo di mischia di Ahmadinejad –sulla cui reale forza e consistenza ancora nulla si sa fuori dall’Iran- ha palesemente una strategia di medio periodo e guarda quindi al vero snodo centrale della lotta per il potere nel paese: la successione a Khamenei. Quando il problema si aprirà (e già più volte è stato dato per imminente) Ahmadinejad sa bene che non esiste nel paese nessun ayatollah con un carisma tale da potersi imporre. Sa anche bene che non è più possibile quel golpe sostanziale che permise a Rafsanjani di imporre Khamenei (che non era neanche ayatollah) alla morte di Khomeini e che la politica dei veti incrociati porterà –con tutta probabilità- ad un esito interessante. La Costituzione, infatti, nella sua ottava sezione, affida in realtà un potere di supplenza ad un Faqhi che non possa esercitare i suoi poteri, ad un Consiglio composto dal Presidente, dal Procuratore Generale e da un giureconsulto indicato dal Consiglio dei Guardiani.

Proprio e non a caso le tre figure istituzionale che in questi giorni stanno incrociando le armi in un crescendo ben visibile: il Presidente Ahmadinejad, il Procuratore Generale Sadegh Larijani (fratello e sodale del presidente del Majlis Ali Larijani), e il presidente del Consiglio dei Guardiani ayatollah Jannati (che si è associato agli allarmi contro i “deviazionisti”).

A fronte di questo quadro, questa la novità, Ahmadinejad con il suo istinto innegabile sta iniziando a percorrere una strada eversiva dello stesso ordine costituzionale. Sostanzialmente si sta via via schierando, con il suo “Islam iraniano” a favore di una espulsione del clero sciita dalla gestione dello stato (distruggendo quindi le basi teoriche della Costituzione) e di una sua completa laicizzazione. Il suo richiamo continuo al Dodicesimo Imam, al suo imminente ritorno e al suo esserne fedele l’interprete, non è  segno di follia (come spesso viene valutata in occidente), ma il riferimento a una profonda tradizione sciita.

Bisogna qui ricordare che tutti gli ayatollah che guidarono dall’interno la rivoluzione contro lo scià (Taleghani, Shariat Madari, Tehrani, Shirazi e –di fatto- anche Montazeri), e tutti i laici entrati nel primo governo rivoluzionario (Bazargan, Banisadr, Sendjabi, Yazdi), anche sulla base anche delle teorie dell’ideologo della rivoluzione, Ali Shariati,  concordavano su un punto focale: la interpretazione del Corano a seconda delle necessità della umma islamica, in assenza del Dodicesimo imam, è “diffusa” nel popolo. Traduzione progressista un ambito musulmano della sede della sovrantà nel popolo. Khomeini, invece, la avocò a sé, scrisse una Costituzione neoplatonica che vedeva la sovranità in Dio e nel Faqih –lui stesso- l’unico interprete. Questa Costituzione spaccò in due il clero sciita, con la stragrande maggioranza dei Grandi Ayatollah nettamente contrari (a partire attuale dal capo della Marjia di Najaf, il “Vaticano sciita”, Ali al Sistani) e solo un’esigua minoranza (tra cui Bagher al Sadr, zio di Moqtada Sadr), favorevoli. Fu uno scontro dottrinario epocale che ebbe immediate conseguenze politiche.

L’ayatollah Shariat Madari –il più alto in prestigio dottrinario non in esilio sotto lo scià- costituì un suo Partito del Popolo Islamico avverso a questa parte della Costituzione, vi furono scontri, morti e arresti. Alla fine vinse Khomeini che umiliò Shariat Madari privandolo del titolo di ayatollah, costringendolo allo stato laicale e agli arresti domiciliari a Qom. Sorte peggiore –finì in galera per anni-  ebbe lo stesso ayatollah Montazeri, che pure Khomeini aveva indicato per anni come suo successore, che aveva materialmente scritto la Costituzione ma che poi osò interpretarla in modo critico al autoritarismo monocratico del Faqih. Duemila furono gli ayatollah e i mullah imprigionati su ordine di Khomeini (a volte torturati e uccisi) per essersi opposti alla Velayat e Faqih, alla Guida del Giureconsulto. Solo clerici di seconda o terza fila, come appunto gli hojatoleslam Khamenei e Rafsanjani si schierarono, ben protetti, dietro alla figura carismatica di Khomeini e ne guadagnarono così la piena eredità di regime. Ma ora la loro biografia umana e politica è agli sgoccioli, l’assetto di potere che su di loro si è retto per  32 anni è usurato e Ahmadinejad intende capitalizzare questa crisi.

Ecco allora che rinasce “da destra”, nelle forze che hanno represso con più forza e ferocia la rivolta dell’Onda Verde (che peraltro aveva nella critica alla Costituzione un punto di forza), un gruppo di potere che persegue un cammino parallelo a quello della sinistra riformista. Ahmadinejad e Meshai, tentano  oggi di enucleare e di lanciare una dottrina, addirittura una proposta di laicizzazione dello Stato, che fa tutt’uno con la politica di aggressione regionale e col programma di costruzione della bomba atomica.

Ovviamente, è difficilissimo comprendere quanto sia forte oggi il gruppo di gerarchi, di detentori di “poteri forti” disposti a seguire Ahmadinejad su questa strada. Sicuramente, come abbiamo visto,  non lo segue –e il fatto è indicativo- il generale Ali Jaafari, uomo di Khamenei, che comanda i Pasdaran. Sintomo di una frattura anche in questo campo: da sempre, infatti, Ahmadinejad ha impostato la sua carriera politica e il suo “discorso”, quale speaker, rappresentante della generazione dei combattenti, dei Pasdaran e dei Bassiji, che combatterono la guerra contro l’Iraq tra il 1980 e il 1988.

La militarizzazione dell’economia iraniana, lo sviluppo consistente dell’industria militare (missilistica, atomica e di telecomunicazioni) in aziende di proprietà dei Pasdaran, lo stesso programma atomico, sono stati i grandi successi che Ahmadinejad ha indubbiamente conseguito assieme al “blocco politico-militare” dei Pasdaran. Successi replicati –come mai nessuno- sulla scena internazionale: Ahmadinejad ha portato l’Iran al centro di una rete di alleanze e di relazioni quali mai l’Iran (neanche quello dello scià) ha goduto. Ma ecco ora, l’apparente paradosso: si schierano contro Ahmadinejad  proprio quelle forze che più e con maggiore ferocia si sono schierate al suo fianco per difendere il suo risultato elettorale truccato. Il Procuratore Generale Sadegh Larinjani che ha mandato sulla forca decine di ragazzi dell’Onda Verde e ne ha imprigionati migliaia.  Ali Larinjani che ha schierato compatto tutto il Majlis a fianco di Ahamadinejad dopo le elezioni. Il vertice dei pasdaran che ha materialmente massacrato l’Onda Verde.

Assodato che il gioco è tutto e solo dentro il campo oltranzista, che i riformatori sono -al momento- del tutto fuori gioco, resta ora da comprendere quale è la forza dei due schieramenti. Un’incognita assoluta, sì che non ci sarebbe da stupirsi se un domani Ahmadinejad e il suo gruppo di potere crollassero verticalmente, o che riuscissero a  imporsi con forza. 

(Tratto da "Longitude")