In Israele la Livni vince d’un soffio, ma i giochi politici sono ancora tutti aperti

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In Israele la Livni vince d’un soffio, ma i giochi politici sono ancora tutti aperti

11 Febbraio 2009

Gerusalemme. Due vincitori, almeno così dalle dichiarazioni a caldo di Livni e Netanyahu, per una sola poltrona che scotta, quella di primo ministro di un Paese in guerra permanente. Il sistema proporzionale puro israeliano è un condannato a morte in attesa di imminente esecuzione, un lusso per qualunque democrazia, figuriamoci per un Paese chiamato a prendere decisioni che possono essere esiziali per la sua sopravvivenza.

La “piccola” vittoria di Tzippi Livni non può essere sottovalutata. Nachum Barnea, principe dei giornalisti israeliani, ritiene addirittura che sia una delle più impressionanti vittorie negli annali della politica israeliana. Difficile dargli torto. E’ una vittoria che ha ribaltato un risultato annunciato, addirittura scontato ai blocchi di partenza. Una vittoria anche contro un pezzo importante del suo stesso partito, Kadima. Una vittoria in qualche misura contro il premier uscente, Ehud Olmert, che solo il giorno prima del voto ha speso una fredda parola a favore del suo ministro degli Esteri. Una vittoria, infine, soprattutto contro il  maschilismo che resta un tratto della società israeliana.

Lo slogan della campagna di Netanyahu si è rivelato un boomerang: “Ze gadol alea” in ebraico , “E’ troppo per lei” in italiano.  Quasi una parodia del ben noto “We can” di Obama. Uno slogan suonato giustamente offensivo alle orecchie dell’elettorato femminile, che ha contribuito in modo determinante al successo della Livni, secondo le prime analisi del voto. Un voto personale, non di partito, quello che ha consentito alla Livni di portare alla Knesset 28 deputati su 120, facendo di Kadima il primo partito. La 50enne dama dalle mani pulite è stata il solo candidato a inviare un messaggio positivo, ad accendere la fiamma della speranza, a far intravvedere la possibilità di un futuro diverso. La sua leadership esce rafforzata, indipendentemente dalle sue chance di diventare primo ministro.

Benjamin Netanyahu, indiscutibilmente, ha le chiavi del futuro governo. Può facilmente salire sul Colle di Gerusalemme, l’altura su cui si erge la residenza del presidente Shimon Peres, e dirsi pronto a formare un governo di centro destra. I numeri alla Knesset ci sono: 64 deputati su 120. Ma significherebbe consegnarsi nelle mani di Avigdor Lieberman e della sua poco digeribile richiesta di un giuramento di fedeltà per gli arabi accusati di solidarizzare col nemico. Il che significherebbe mettersi nelle fauci di Shas, partito ultraortodosso, che proprio Netanyahu, da ministro delle Finanze, ha fronteggiato, tagliando nel 2003 le generose indennità per le famiglie numerose e che ora se divenisse determinante presenterebbe un conto salatissimo. E per Netanyahu significherebbe anche doversi consegnare, legato nelle mani e piedi, nelle grinfie di Unione Nazionale, il partito dei coloni, che gli impedirebbe anche solo di sedersi a un tavolo negoziale dove la questione della restituzione dei territori occupati nel ’67 fosse all’ordine del giorno.

Un tale governo entrerebbe in rotta di collisione con l’amministrazione Usa, desiderosa di vedere Israele proseguire le trattative con la Siria e i palestinesi. Netanyahu ne è perfettamente consapevole. Per questo, in campagna elettorale ha promesso, in caso di vittoria, un governo di larghe intese. Il leader del Likud non ha dimenticato le difficoltà incontrate nel 1996 quando, vinte le elezioni, guidò una coalizione di centro-destra con una piccola e rissosa maggioranza.

L’unica strada sembra dunque quella di un esecutivo che veda dentro Likud e Kadima come perni centristi. Il problema è la guida. Sia Netanyahu sia la Livni la rivendicano. Per il presidente Shimon Peres, cui spetta il compito di assegnare l’incarico, è un groviglio difficile da sbrogliare.

Dietro i due grandi piccoli partirti, Kadima e Likud, che insieme arrivano a raccogliere appena il 45 per cento dei consensi, si piazza Avigdor Lieberman. La sua crescita ridimensionata rispetto alle previsioni. Si aggiudica 15 seggi. In caduta libera invece i laburisti di Ehud Barak, che si fermano a 13 seggi. Per non parlare di Meretz, il partito della sinistra pacifista, appoggiato dallo scrittore Amos Oz, che tocca il suo record negativo con solo 3 deputati. Si conferma, quindi, che i grandi intellettuali non necessariamente hanno uguali doti in fiuto politico. Risulta invece preoccupante, il calo dell’affluenza alle urne degli arabi israeliani, che si ferma al 52 per cento. Uno scollamento di cui non solo Lieberman e l’impatto emotivo della guerra recente a Gaza, ma anche perduranti discriminazioni sono le cause che non possono essere nascoste.

La vittima designata di questa tornata è il sistema elettorale. La frammentazione incominciata nel 1996, a causa di una folle riforma che combinava la scelta diretta del premier con una libertà assoluta di scelta di partito continua a produrre i suoi devastanti effetti anche dopo che nel 2003 si è tornati al proporzionale puro senza scelta del premier e con uno sbarramento al 2 per cento. Lieberman, il cui sostegno sembra determinante per qualunque maggioranza, chiede una riforma in senso presidenzialista. Barak, uscito con le ossa rotte, e che entrerebbe solo in un governo di unità nazionale, si è già pronunciato a favore di una riforma elettorale. Questo potrebbe essere uno dei primi compiti del futuro governo. Poche cose sono così chiare: il Paese vuole una guida forte, il sistema favorisce il potere di ricatto dei piccoli partiti e la pressione per un cambiamento non è mai stata tanto forte.