In Italia c’è ancora chi pensa che il voto sia una malattia

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In Italia c’è ancora chi pensa che il voto sia una malattia

09 Aprile 2018

Votare non è uno shock, bensì, quando è necessario, una medicina opportuna per preservare la democrazia. Ascoltate gli inglesi. Revise the electoral law and hold a vote under a format that would produce a real winner”. Un editoriale della direzione del Financial Times del 9 aprile spiega che se il Parlamento italiano non trova una solida maggioranza, la cosa migliore è fare una nuova legge elettorale che aiuti a definire un vero vincitore e rivotare. Furono proprio gli inglesi negli anni Settanta a consigliare ai greci dopo la dittatura dei colonnelli di dare un premio del 10% al partito con la maggioranza relativa dei voti, un sistema che ha consentito ad Atene di non avere più problemi di governabilità nonostante tutte le traversie passate. E’ il meraviglioso popolo inglese (ma così anche quello spagnolo, quello francese, quello portoghese e altri ancora) che sa che il voto, quando è necessario, è la migliore soluzione dei problemi della nazione mentre gli intrighi come quelli che si sono susseguiti dal 2010 in poi creano solo proteste senza testa. Non crediamo che sia vero il pensiero che Claudio Tito attribuisce sulla Repubblica del 9 aprile a Sergio Mattarella: “Un’altra campagna elettorale, addirittura nel 2018, come alcuni esponenti politici hanno ipotizzato nel corso del primo giro di consultazioni, sarebbe uno shock per il Paese”. Ma se pensa così il nostro pur ottimo presidente della Repubblica sbaglia. Gli shock vengono prodotti innanzitutto da governi privi di una adeguata legittimità politica.  

Dai Rizzo, fa’ la faccia feroce che Corriere e Fatto grillininizzati stano bagnando il naso a quelli di Largo Fochetti. Questioni di opportunità pesanti come macigni che fanno a pugni anche soltanto con l’idea che Berlusconi possa andare al Quirinale”. Così scrive Sergio Rizzo sulla Repubblica del 4 aprile. In preda alla disperazione, perché la centralità grillina a sinistra è gestita dal Corriere della Sera e dal Fatto, a Largo Fochetti chiedono a Rizzo di far la faccia feroce sperando di conquistare almeno uno strapuntino nella nuova scena politica. Il 7 aprile arriva in soccorso anche Lavinia Rivara che sempre sul quotidiano di Largo Fochetti spiega i nuovi terribili conflitti d’interesse in corso nel parlamento appena eletto: “C’è chi presiede una cooperativa di pescatori come il leghista Giancarlo Giorgetti e chi siede nel cda della Mondadori, come l’avvocata di Berlusconi Cristina Rossello. Molti hanno un ruolo nelle aziende di famiglia, magari una piccola impresa, come quella dei Di Maio, oppure una grande azienda come la Kedrion della dinastia Marcucci”. E sempre nello stesso giorno Annalisa Cuzzocrea finalmente può sfoderare un’intervista a Luigi Di Maio che, pensando di essere Angela Merkel (che ha il 32 % come lui), apre al Pd: “Credo però che ora il senso di responsabilità ci obblighi tutti nessuno escluso, a sotterrare l’ascia di guerra“.

C’è un po’ di vita a sinistra. In Francia. S’il a participé à la manifestation du 22 mars au côté des cheminots, Olivier Faure prend ainsi clairement ses distances dans Libération avec les tentatives de “front anti-Macron” qui s’ébauchent entre Benoît Hamon, le PCF, EELV, les Insoumis et Olivier Besancenot. ‘Je ne pense pas qu’un mouvement social soit le moment d’un congrès de réunification des gauches (…) Nous devons être des interlocuteurs, pas des accapareurs”, tranche-t-il. De même ne se montre-t-il guère séduit par l’appel au “grand débordement” lancé par François Ruffin pour le 5 mai. “Ce genre d’appel n’a pas pour objet d’intensifier le mouvement social, et a pour effet de l’éteindre’”. Joel Saget su Afp del 6 aprile scrive del nuovo leader (di sinistra) del Partito socialista francese Olivier Faure che ha partecipato alla manifestazione dei ferrovieri contro la legge Macron, ma resiste per ora ai tentativi delle altre forze di sinistra di formare un fronte contro la politica del presidente della Repubblica. L’aria è comunque che mentre a Roma da sinistra ci si ispira al macronismo, a Parigi si guarda a Kevin Kühnert, il capo degli Jusos, ad Alexis Tsipras, a Jeremy Corbyn e ad Antonio Costa, il nuovo premier portoghese.

E’ la storia, bellezza. E’ normale, per tanti, trattare gli eventi del presente come se il passato non contasse nulla”. Come al solito sul Corriere della Sera del 7 aprile, Angelo Panebianco aiuta ad aprire le menti, criticando una discussione sulla politica che non è capace di cogliere quanto passato c’è nel presente, appiattendo ogni cosa sulla propaganda e sulla retorica. Perfetto! Però c’è poi qualche annotazione del mirabile commentatore che non condivido. C’è un ripetere alcuni schemi interpretativi (il ruolo di Mosca, Luigi Di Maio che copia la logica di Stalin con i fronti popolari paragone simmetrico a quello di che considera Beppe Grillo una sorta di Joseph Goebbels, e altre notazioni simili) che mi sembrano “storicamente” sbagliati: attribuire dinamiche da guerra civile europea alle vicende attuali significa non comprendere la concreta determinazione dei fatti attuali che ubbidisce a una logica diversa a quella che si è manifestata innanzi tutto grazie alla Prima e alla Seconda  guerre mondiali in Europa tra il 1914/1917 e il 1989/1991. Per molti versi la situazione italiana è molto più simile a quella del Primo Novecento che a quella del dopo ’18 e dopo ’45: così la ristretta base sociale dello Stato, l’eccesso di influenze straniere rispetto agli altri grandi paesi europei, la difficoltà della  nostra borghesia a esprimere un ruolo dirigente nazionale, l’ostilità ad allargare le basi dello Stato ai populisti di allora (i “neri” di Luigi Sturzo e i “rossi” socialisti).