In Italia il partito dei “poteri chiusi” non c’è più ma dà fastidio
22 Marzo 2010
La partita elettorale del 28 e 29 marzo è ancora incerta. Tanti episodi in questi mesi, dall’attacco a fondo contro un simbolo dell’efficienza di questo governo come Guido Bertolaso all’esclusione spesso apparsa strumentale delle liste Pdl fino alla recente inchiesta della procura di Trani, hanno creato un clima che ha messo in difficoltà un Silvio Berlusconi già scosso – anche psicologicamente non solo fisicamente – a dicembre per la dura aggressione personale subita.
Non si tratta di complotti di un’unica centrale ma di un sommovimento vasto che ha, a partire da quello che è il centro della destabilizzazione cioè dai settori più corporativi e militanti della magistratura, un’unica ottica: paralizzare gli assetti democratici del potere reale del paese. Assetti che vedono anche limiti in una Costituzione per alcuni tratti segnata dai necessari compromessi del 1947: qualche impreciso bilanciamento di poteri determinato dalla paure per il “prima” fascista e per il “dopo” Guerra fredda e un serio pasticcio nel dare un’impronta da società aperta a una magistratura con cui era indispensabile evitare tensioni.
Certo vi sono anche alcune forzature di Berlusconi che sarebbe stato meglio non compiere ma queste non modificano la sostanza di quel che determina il quadro generale.
E questo quadro dice che si era di fronte a una sinistra disperata perché il suo governo al Sud era stato disastroso: l’altro giorno La Repubblica stessa ricordava come le regioni a rischio criminalità organizzata in questo voto siano Basilicata, Calabria, Campania e Puglia, cioè tutte le aree amministrate dal centrosinistra. Il fallimento del Lazio di Pietro Marrazzo era evidente a tutti. La palma del buon governo era ormai passata da Emilia e Toscana a Lombardia e Veneto. In questa situazione le grandi tendenze conservatrici nei poteri italiani si sono quasi naturalmente mobilitate.
In che misura hanno inciso? Quanto riusciranno a determinare? La manifestazione di Roma ha cambiato il clima?
Il risultato dipende soprattutto da quanto abbia pesato un certo effetto disgregativo, una qualche confusione determinata nell’ultimo periodo, quanto tutto ciò abbia modificato gli orientamenti di fondo. In astratto va ricordato come il popolo italiano abbia dimostrato in molte occasioni, nei momenti decisivi, di sapere cogliere le questioni essenziali rispetto a quelle manipolate. Ma si tratta di capire quanto possa reggere una risposta politica che ha una sua componente essenzialmente emergenzialista.
Il risultato peserà nel determinare in un senso o in un altro anche la dinamica politica generale giunta a un passaggio cruciale: o aumenta la capacità riformista della maggioranza o questa si disgrega a medio termine con effetti non prevedibili. Intanto i processi in corso aiutano a comprendere con più chiara evidenza alcune componenti dei poteri chiusi italiani.
Al di là dei settori più corporativi e militanti della magistratura, si è manifestato in questa ultima fase la tentazione di rivitalizzare il cosiddetto partito Fiat, o laicista o come disse Luca Cordero di Montezemolo dei “migliori” o come si ripresenta spesso dei “tecnici”. Le radici di questa tendenza sono profonde, nascono dalla storia del nostro stesso Risorgimento dove il peso della questione temporale impedì alla Chiesa di partecipare alla formazione del “nuovo” stato e spinse le classi dirigenti a darsi una forma laicista e, corrispettivamente, una larga fetta della borghesia cattolica in qualche modo a “separarsi”. Tutto fu aggravato dall’impedire all’uomo che tentava di conciliare l’Italia, Giovanni Giolitti, di raggiungere il suo obiettivo di allargare le basi dello Stato.
Lasciando da parte la parentesi fascista, nel Dopoguerra l’impegno della Chiesa a surrogare una borghesia compromessa con il mussolinismo, costrinse a dare ancora ruoli separati e protetti a una forma laicista di tutto un settore della società che altrimenti avrebbe reagito alla totale prevalenza cattolica lasciando troppi spazi all’opposizione filocomunista. Da qui il riprodursi di due classi dirigenti di “governo” della politica e dell’economia, talvolta parallele, laica e cattolica. Tutto questo è finito. E’ finito perché è finita la guerra civile europea che imponeva all’Italia un certo tipo di assetto, è finito probabilmente anche per altre cause internazionali: proprio in questo decennio si sta consumando l’assoluta centralità (per quella relativa c’è ancora un po’ di tempo) dell’Occidente nella vita del mondo, le differenze tra “laici” e “cattolici” occidentali diventeranno man mano assai meno rilevanti rispetto a quelle che ci saranno presentate da antropologie riemergenti su scala globale come quelle islamica e confuciana.
Nonostante tutto quello che avviene nel mondo, in Italia c’è stato un tentativo di Romano Prodi di mantenere in vita un qualche potere “cattolico” come base per la sua influenza personale.
C’è oggi un tentativo di ripresa del cosiddetto partito laicista o Fiat o come lo si voglia chiamare: secondo una nota regola che anche quando una tendenza non esercita più una funzione nazionale rilevante non per questo – in quanto aggregato di potere – si disperde. Ma una tendenza che proceda senza avere più una funziona nazionale, diventa elemento essenzialmente disgregatorio e non di sviluppo o coesione. E questo è quello che sta succedendo, questo è quello che esprime per esempio la posizione astensionista montezemoliana.
In questo senso Gianfranco Fini ha commesso un qualche errore non tanto per avere cercato di integrare la fragilità politica del berlusconismo – cosa che in sé utile – ma per averlo fatto cercando una sponda in una tendenza che è essenzialmente espressione non solo di un potere chiuso ma anche morto. Dando così qualche contributo alla disgregazione. Naturalmente niente è mai irrimediabile.