In politica estera comincia il dopo-D’Alema

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In politica estera comincia il dopo-D’Alema

In politica estera comincia il dopo-D’Alema

07 Maggio 2008

Libano e Europa sono le due priorità di politica estera che il governo Berlusconi eredita dal governo Prodi, che le ha gestite nel modo peggiore possibile. Le polemiche che negli ultimi giorni hanno investito il comando di Unifil in Libano, gestito dal generale italiano Claudio Graziano, sono la piccola scossa di avvertimento di un terremoto che rischia di avere conseguenze terribili. I più autorevoli giornali israeliani hanno infatti accusato Unifil di aver tollerato il riarmo di Hezbollah senza fare alcuna opposizione, non per gusto della polemica, ma perché sono ben coscienti che l’estate del 2008 rischia di essere simile a quella del 2006. Solo che questa volta circa 2.600 militari italiani – più quelli degli altri contingenti – rischiano di trovarsi sulla Santa Barbara di Hezbollah (ampiamente rifornita e riarmata), senza alcun ruolo, se non quello di applicare due risoluzioni Onu, la 1701 e la 1773, ampiamente disattese sia da parte libanese (l’esercito di Beirut ovviamente nulla ha fatto per disarmare Hezbollah, come le due mozioni prescrivevano), che da parte siriana (Hezbollah ha trasportato non meno di 10.000 razzi in Libano proprio grazie a Damasco).

La gravissima responsabilità politica di Romano Prodi e di Massimo D’Alema, assieme a Jacques Chirac, infatti, è stata quella di varare una mossa saggia e giusta (la missione Unifil, appunto, appoggiata anche da Israele), senza però minimamente dotarla di copertura politica. Copertura che doveva essere, sin dal primo momento attuata con una forma di pressione forte, diretta – anche minacciosa all’occorrenza – sul governo di Damasco, partner, padrino e fornitore di Hezbollah, in piena sintonia con Mohammed Ahmadinejad e i pasdaran iraniani. Ma né Prodi, né D’Alema, né Chirac hanno esercitato queste pressioni su Damasco (o su Teheran). Al contrario, fedeli alla propria demenziale strategia di differenziarsi innanzitutto e prima di tutto da George W. Bush, hanno blandito Bashar al Assad (ma anche Ahmadinejad ha visto sempre aperte le porte di palazzo Chigi ai suoi emissari, anche nei peggiori momenti di crisi con l’Onu) senza ottenere alcun risultato. La conseguenza di questa irresponsabile politica attendista si è ben vista nell’evoluzione sempre più drammatica della crisi istituzionale libanese, là dove le continue missioni di Kouchner e D’Alema sono state semplicemente irrilevanti e tutti sanno che oggi Beirut – sotto il giogo di Hezbollah e Siria – è una casamatta sul punto di implodere.

 

L’unica strategia seguita dal governo Prodi-D’Alema è stata quella italiota di sempre: sopravvivere, ingraziarsi Hezbollah (con molti, molti favori sottobanco che un giorno verranno alla luce) e aspetta che pass a’ nuttata. Ora, Berlusconi deve prendere al più presto in mano l’iniziativa (l’ex ministro della Difesa Antonio Martino aveva lanciato il sasso in campagna elettorale), ma ha possibilità d’azione limitate. La più lineare, quella che più corrisponde alla drammaticità della situazione, passa per la costruzione rapida di un contesto europeo (con una ben possibile intesa con Sarkozy, Merkel, Zapatero e anche l’impacciato Brown), che punti a una sensibile modifica delle regole d’ingaggio, che permetta al contingente Unifil (da riarmare adeguatamente a fronte dei pericoli che sovrastano) di confrontarsi anche duramente con Hezbollah, se sarà il caso, se e quando l’asse Damasco-Teheran deciderà di reincendiare il Libano per impedire l’accordo tra Ehud Olmert e Abu Mazen. Se le regole d’ingaggio non saranno mutate e adeguate, all’Italia non resterà che prenderne atto e affrontare con dignità l’unica scelta possibile: ritirare il suo contingente dal Libano. Il nostro paese può rischiare la vita dei suoi soldati per difendere la pace. Non può rischiarla obbligandoli a stare fermi, come bersagli collaterali, quando Hezbollah sparerà razzi sul Libano e Tshal risponderà.

 

La priorità europea è di nuovo disseminata sotto le macerie del governo dell’Unione. L’unica idea che il centrosinistra ha sempre avuto e ha sempre difeso è stata quella di schierarsi con l’asse franco-tedesco (teorico di questa scelta è sempre stato Enrico Letta). Quando questo era rappresentato dalla coppia antiamericana Chirac-Schroeder era una pessima linea politica (attendista, non propositiva, viziata dal solo antiamericanismo, senza alcuna sponda alternativa se non, vagamente, nella Mosca di Putin), ma era pur sempre una linea politica (molto, molto vecchia, elaborata dall’asse Andreotti-Berlinguer negli anni settanta). Ma prima Merkel, poi Sarkozy, hanno infranto quella pura logica di interdizione, si sono riposizionati a fianco di Bush e quindi D’Alema e Prodi l’hanno sostituito… con l’asse Malta-Cipro-Slovenia-Grecia e altri piccoli dell’Ue. Un nulla, utile solo per manovrine di palazzo (unica specialità di D’Alema) mirate a riscuotere voti in sede di plenum Ue, privo di ogni respiro strategico. Una scelta di totale marginalizzazione dell’Italia nel consesso dei Grandi (utile però per fare altri piaceri ad Hamas ed Hezbollah). Questo nulla è stato poi riempito con l’unica grande vocazione di Prodi – meno di D’Alema – e cioè la tessitura di politiche industriali controllate dalla sua Iri-di-Palazzo-Chigi (viaggi in Cina, India e altro). Poi è venuto il terremoto spazzatura di Napoli (è di oggi la notizia della procedura d’infrazione Ue) e la politica estera del governo Prodi ha trovato la sua degna conclusione d’immagine sul piano internazionale.

 

Quel che farà Berlusconi su questo terreno è già abbastanza chiaro se solo si guarda all’attività di elaborazione recente di Giulio Tremonti. Il leader del PdL, infatti, non solo rinserrerà quella collana atlantica con capo a Washington che è sempre stata tipica dell’Italia (e della Germania, prima di Schroeder), con Sarkozy, Merkel, Brown e anche Zapatero (con qualche distinguo), ma le darà anche un indirizzo specifico. Non più declamatorie e sterili affermazioni di identità europea (mandata a picco, peraltro, con buona pace di Enrico Letta proprio da Chirac col suo referendum sul Trattato europeo), ma politiche di concerto per correggere le storture della globalizzazione. Tremonti indica con precisione nel trattato WTO e nella gestione Prodi della Commissione europea i due momenti drammatici che hanno aperto alla Cina le porte dei mercati europei – per terremotarli – senza peraltro aprire il mercato cinese agli europei. Il tutto, per di più, con spaventose conseguenze sul piano della difesa dell’ambiente, delle condizioni infernali di lavoro dei cinesi e tantomeno dei diritti umani (vedi Tibet, ma non solo).

 

Berlusconi e Tremonti, dunque, lavoreranno da subito per innervare una posizione recuperata di leadership dell’Italia nell’Ue, spingendo per l’elaborazione di una politica comune di correzione delle distorsioni della globalizzazione. Un percorso molto concreto, assolutamente reso indispensabile per la ripresa dalla attuale fase di stagnazione, con pochi fronzoli politici e pochissima retorica, che può finalmente far recuperare al nostro paese il suo tradizionale ruolo di “suggeritore autorevole” delle strategie europee di largo respiro. Il tutto, ben sapendo che, a differenza di Prodi, Berlusconi è ospite più che gradito sia alla Casa Bianca che al Cremlino, fatto che – in politica estera – dà un aiutino.