In “Prometheus” mancano i silenzi, l’oscurità e il terrore di “Alien”

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In “Prometheus” mancano i silenzi, l’oscurità e il terrore di “Alien”

17 Settembre 2012

Rivedendo l’intera serie di “Alien” (quattro film girati dal 1979 al 1997, riprogrammati da Sky questa settimana alla cadenza di uno al giorno), che annovera dietro la macchina da presa alcuni fra i miglior registi del cinema contemporaneo (Ridley Scott, James Cameron, David Fincher e Jean-Pierre Jeunet), un elemento salta agli occhi: la matrice di Ridley Scott resta insuperabile. I tre film successivi sono variazioni movimentate (il primo), stilizzate (il secondo) o grottesche (il terzo). Ma restano variazioni. L’originale non è minimamente raggiungibile.

Ridley Scott ebbe l’intuizione (resa sublime nell’opera successiva, “Blade Runner”, del 1982) di utilizzare il genere di fantascienza in chiave claustrofobica. Il racconto è lento, e non sono gli effetti speciali a dominare. Tutto si svolge all’interno di una nave spaziale (tranne una scena all’esterno, che serve per far entrare nell’intreccio narrativo il nemico alieno). E poi la vera, grande idea del film, è la protagonista, la trentenne atletica Sigourney Weaver. Una donna che alla fine riesce a sconfiggere il mostro.

Dopo un trentennio Ridley Scott ha deciso che ci voleva un nuovo film per fissare i punti chiave della sua spettacolare e ormai mitica creatura cinematografica. Ma ha voluto che non fosse un prequel (così da rendere chiaro il significato del film successivo). Ecco dunque “Prometheus”, libera introduzione ad “Alien”. Non ci sono dubbi. Il film di Ridley Scott è bellissimo. Ma è altra cosa da “Alien”. Avrebbe fatto meglio, invece, a spiegare perché l’alieno aggredì l’umano. E, soprattutto, cosa rappresentava l’’alieno. Gli extraterrestri sono stati un asse portante della cultura popolare della seconda metà del XX secolo. Appaiono subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, in America.

La data fatidica è il 1947, quando un ricco signore, Kenneth Arnold, avvista dal suo aereo privato strani dischi volanti (nello stesso anno, a cementare la leggenda, a Roswell, nel deserto del New Mexico, cade un disco con il corpo di un alieno, prontamente nascosto dalle autorità governative). Da quel momento la febbre aliena sale di intensità. La scienza comincia a trasformarsi in fantascienza e la fantascienza, successivamente, in religione del consumo postmoderno. Gli alieni, intanto, sempre più presenti fra di noi (anche se invisibili), non invadono la terra per succhiarle il sangue, ma occupano pagine e pagine di pubblicazioni spesso secondarie, che però con il passare del tempo diventano sempre più sofisticate.

La fantascienza, come detto, si trasforma in una sorta di religione dalle varie sfaccettature. Come dimenticare che l’inventore di Scientology, Lafayette Ron Hubbard, è un prolifico scrittore di libri di fantascienza. E che dire di Claude Maurice Marcel Vorilhon, fondatore della religione ufologica realiana. Ma Ridley Scott in “Prometheus”, non rinnegando la centralità aliena, si avventura in una superficiale (quanto sterile) illustrazione del dibattito tra creazionismo o spontaneismo. L’origine della vita è divina o casuale? Siamo creature di Dio o frutto di uno scherzo della natura? Le troppe parole (e le troppo belle immagini) dominano il film di Scott. Erano più sensati i silenzi, l’oscurità, spesso il terrore di “Alien”. “Prometheus” è un fratello ben cresciuto nel lusso sfrenato (degli effetti speciali) e in un universo, come quello contemporaneo, che avendo rinunciato a credere in Dio, è finito per credere in tutto.