In tempo di crisi il governo non vuol toccare le pensioni e fa bene

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In tempo di crisi il governo non vuol toccare le pensioni e fa bene

29 Aprile 2009

Per l’ennesima volta, il Ministro Giulio Tremonti, rispondendo, da ultimo, a sollecitazioni, per certi aspetti ormai rituali, della Presidente di Confindustria, ha ribadito la contrarietà del Governo a porre in essere, in un periodo di perdurante grave crisi dell’economia, ennesimi interventi di manutenzione del sistema pensionistico di base. E’ questa la linea tante volte espressa, con puntigliosità, da Maurizio Sacconi, nell’assunto, ancor prima morale che tecnico, che intervenire in senso riduttivo sulle pensioni, in una fase di generale difficoltà, risulterebbe socialmente odioso e motivo di maggior disgregazione nel Paese. Tale intervento determinerebbe, infatti,  ulteriori cause di ansia e di preoccupazione per i cittadini.

Orbene, da un punto di vista strettamente (ed astrattamente) teorico, a fronte di una popolazione che continua – fortunatamente – a progredire nell’invecchiamento ed è però priva di una forte spinta verso la natalità (carenza, questa, non compensabile, per varie ragioni tecniche, dall’apporto atteso dell’immigrazione) non sarebbe di per sè errato individuare modalità volte a procrastinazione il sorgere del diritto pensionistico, rispetto a quanto già previsto de iure condito. Va, tuttavia, sottolineato che, in una situazione di congiuntura economica come l’attuale, di carattere assolutamente straordinario, internazionale, ancor prima che nazionale, non vi sono stringenti ragioni tecniche per individuare in una nuova riforma dell’ordinamento della previdenza di base un’emergenza a cui il Governo debba far fronte in via prioritaria. Altre e più immediate sono le criticità per cui occorre intervenire, anche perché, prima e con maggior incisività e “audacia” innovativa, rispetto ad altri partner dell’Unione Europea, il nostro Paese ha già realizzato, fin dal 1995, un articolato e draconiano processo di riforma del sistema pensionistico di primo pilastro.

Su di esso, per oltre un decennio, si sono innestati altri interventi manutentivi, non sempre del tutto coerenti ed equi, ma comunque tali da non vanificare il lavoro già fatto. In taluni casi, anzi, ne sono stati un completamento tecnicamente apprezzabile. All’attualità, la porzione preponderante degli iscritti ai regimi di previdenza di base sono destinatari parzialmente – “ pro quota”-  (soggetti privi di 18 anni di anzianità contributiva alla forma pensionistica di appartenenza alla data del 31 dicembre 1995) o totalmente (soggetti iscritti alla previdenza di base dal 1° gennaio 1996) del metodo di calcolo contributivo del proprio trattamento pensionistico. Questo meccanismo, per dirla semplicemente, consiste nella capitalizzazione “virtuale” o figurativa dei contributi versati per ciascuna posizione (in realtà i contributi sono utilizzati per il pagamento degli assegni pensionistici in essere, in applicazione del metodo tecnico della ripartizione), con trasformazione finale in rendita pensionistica (attraverso l’impiego dei “famosi” coefficienti di trasformazione) del montante contributivo vantato all’atto del pensionamento. Anno per anno, ai sensi di legge, le diverse posizioni contributive figurative sono rivalutate secondo l’andamento del PIL.

E’ questo un meccanismo importante. A fronte, infatti, di un andamento del PIL pari a zero o negativo, le posizioni pensionistiche non beneficiano di rivalutazione alcuna, “migliorando” prospetticamente (nell’ottica, ovviamente, della sostenibilità dei sistemi previdenziali) l’ammontare – il peso – del debito per prestazioni pensionistiche. Uno o più anni di stagnazione o di negatività del PIL rappresentano, quindi, un’automatica misura di risparmio per il sistema previdenziale, in relazione allo stock di debito pensionistico derivante dal metodo di calcolo contributivo degli assegni.   Correlativamente, dal punto di vista degli iscritti, la mancata rivalutazione per uno o più anni della posizione figurativa individuale, com’è ovvio, determinerà una contrazione dell’ammontare dell’assegno pensionistico di pertinenza. Ove la stagnazione del PIL dovesse, malauguratamente, verificarsi per più annualità, oltre a delle drammatiche, immediate, conseguenze sociali per il Paese, essa determinerebbe di dover valutare una crescente potenziale inadeguatezza della copertura pensionistica attesa di larghe fasce di cittadini.

A fronte dello scenario in precedenza prospettato, occorrerebbe altresì considerare il ruolo e la funzione che, potenzialmente, è suscettibile di assolvere la previdenza complementare, istituto per il quale, contrariamente all’ordinamento pensionistico di primo pilastro, è forse ipotizzabile qualche sia pur minimo intervento di modifica normativa. Su questa tematica, non priva di complessità tecnica, sembra tuttavia opportuno programmare di ritornare quanto prima in via specifica.