In Turchia la democrazia sfugge e l’Europa fa da palo
30 Luglio 2008
"Non abbiamo deciso di chiudere il partito Akp, ma di lanciare un serio monito, tagliando metà dei fondi messi in bilancio nell’anno in corso. Mi auguro che i vertici del partito prendano sul serio quanto è stato deciso”: così Hasim Kilic, presidente della Corte suprema di Ankara ha spiegato la fondamentale sentenza emessa oggi. Sentenza tutta politica, che evita per un soffio una straordinaria crisi istituzionale (5 giudici su 11 hanno votato per lo scioglimento dell’Akp e quindi per la deposizione conseguente sia di Tayyp Erdogan quale premier che di Abdullah Gul quale presidente della Repubblica) e che lancia un doppio segnale di grave allarme. Sul piano interno, obbliga l’Akp in tutte le sue articolazioni istituzionali a bloccare la legislazione islamista che stava adottando e a tenere conto delle istanze laiciste, di netta separazione tra Stato e religione, di cui la Corte suprema e soprattutto le Forze Armate sono storicamente fedeli – e democratici garanti – da 50 anni a questa parte.
Sul piano internazionale, avverte per l’ennesima volta l’Europa e l’Occidente delle difficoltà estreme che trovano il radicamento e l’affermazione della democrazia in un paese musulmano. Difficoltà che hanno portato nel corso dell’ultimo secolo la Turchia ad elaborare un modello di Stato ben diverso da quello che si è affermato in Europa e basato sulla divisione tra i tre poteri. Dal 1960 ad oggi, infatti, l’unica democrazia matura del mondo musulmano, ha potuto crescere solo e unicamente perché sottoposta ad un “potere sovraordinato” delle Forze Armate che sono intervenute in tutti i momenti di crisi democratica: hanno deposto un presidente del consiglio con tendenze autoritarie (Menderes, nel 1960, poi impiccato); hanno sconfitto nel 1980 una deriva di guerra civile tra terroristi di tutti i tipi (che generò il complotto contro la vita di Giovanni Paolo II° nel 1981), deponendo il governo legittimo, mettendo agli arresti domiciliari tutti i leader dei partiti (incluso Escevit e Demirel), salvo poi riconsegnare loro tutto il potere – dopo un referendum popolare – dopo pochi mesi, in un paese finalmente pacificato; hanno infine spalleggiato la Corte suprema nel 1997, 1999 e 2001, nel mettere fuori legge i partiti islamisti di Ecmettin Erbakan (in cui militavano Erdogan e Gul), favorendo così infine la nascita di una Akp che ha optato per un Islam rispettoso – ma non del tutto, come si è visto ieri – della laicità dello Stato.
Purtroppo, negli ultimi anni questa tutela democratica delle Forze Armate e della Corte suprema è stata gravemente infiacchita da una Europa che non sa concepire le democrazia se non dentro il suo modello storico. Totalmente incapace di comprendere non solo la storia della Turchia, ma soprattutto la difficile affermazione di una democrazia effettiva in un paese totalmente musulmano, l’Ue ha infatti imposto ad Ankara di eliminare tutti gli articoli della Costituzione che assegnavano alle Forze Armate un ruolo sovraordinato alla politica in alcune istituzioni chiave (innanzitutto nel Consiglio per la sicurezza nazionale e poi nello stesso ministero della Difesa). Erdogan ha assecondato con grande gioia queste prescrizioni che toglievano ai generali ogni possibilità di tutelare la laicità dello Stato, come hanno sempre fatto, ogni volta, anche nelle emergenze più drammatiche, a favore del rafforzamento della democrazia e mai, mai, assumendo se non per brevissimi periodi il potere politico. Alla fine di questo processo – dopo aver stravinto le ultime elezioni, va detto, perché dal punto di vista elettorale i laici turchi sono in picchiata – il governo Erdogan ha dato vita ad alcuni provvedimenti di pretta marca islamista sia nel campo dell’istruzione – e non solo il permesso di portare il velo nelle università – che nella gestione delle moschee e delle scuole coraniche. Nulla da stupirsi: l’Ue ha infatti imposto l’applicazione dei “parametri di Copenhagen” che erano stati definiti nel 1992 per guidare il passaggio delle democrazie popolari del Patto di Varsavia ormai tracollate, alla democrazia. L’Ue, dunque, non si è minimamente posta il problema di comprendere se quei criteri fossero adeguati e utili per garantire lo sviluppo democratico di una società musulmana. Soprattutto, l’Ue non si è mai posta il problema di comprendere il ruolo positivo, democratico, che – confliggendo con i principi statuali e con la storia dell’Europa – hanno svolto le Forze Armate turche dal 1960 in poi. L’Ue, insomma, non ha voluto comprendere, non ha voluto analizzare, non ha voluto prendere atto che in contesto islamico contemporaneo le stesse basi del Fiqh, del Diritto musulmano, confliggono con una concezione democratica della famiglia – a partire dal ruolo subordinato della donna – e quindi dell’intera costruzione sociale e politica. Tantomeno, l’Europa ha voluto mettere a fuoco la straordinaria esperienza kémalista dal 1921 in poi, che – a partire dalla vittoria sulle truppe anglo-elleniche – ha prima costruito uno stato autoritario, ma in modo tale – il voto alle donne è stato stabilito nel 1932 – che era segnata una sua rapida evoluzione – sempre sotto tutela dei generali – verso una democrazia compiuta, sia sostanziale che formale.
Ora, la Corte Suprema di Ankara lancia al mondo un segnale gravissimo di allarme: la democrazia laica turca è in pericolo, per ora viene solo sanzionato chi la minaccia, ma non è detto che sia sufficiente. Erdogan e la sua Akp, infatti, hanno oggi la possibilità di cambiare in Parlamento – ne hanno i numeri – la Costituzione stessa. Se lo faranno, ma non è detto che Erdogan scelga questa strada pericolosa, lo scontro politico nel paese tornerà al calor bianco. Ma l’Europa, anche se questo accadrà, c’è da scommetterlo, non saprà fare altro che quello che ha fatto dal 1945 ad oggi: farà da palo.