In viaggio contro la mediocrità. La guida anti-turistica di Manganelli

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In viaggio contro la mediocrità. La guida anti-turistica di Manganelli

31 Dicembre 2010

E’ diffusa usanza dei popoli occidentali organizzare e/o partecipare a viaggi organizzati – catastrofiche gite, famigerati eventi fantozziani che raggruppano una decina una ventina una quindicina di infelici e li sbattono in qualche città d’arte (che, possibilmente, sia irraggiungibile con mezzi più comodi d’un autobus privo di ammortizzatori e sedili) dove dovranno fare una maratona per vedere ogni dettaglio possibile di altari secenteschi, di ciabatte corinzie o sospensori atzechi. Sempre che, costoro, in vena di elargizione, non si siano svenati per venir sistemati su navi da crociera lussureggianti di profferte lubriche e quasi puntualmente disattese.

Questo si chiama “turismo”. Nell’Ottocento si aveva un concetto diverso del viaggio (si pensi ai viaggi in Italia di Goethe, Sade, Nietzsche, Dumas…) e anche negli anni ‘60 il viaggio era motivo di crescita e scoperta. Solo nei nostri anni ‘80 e soprattutto ‘90 è mutato. Forse solo il XXI secolo muterà l’orizzonte degli eventi di questo buco nero.

Ora si viaggia alla velocità con cui si starnutisce, le vacanze durano meno e di conseguenza devono essere più intense e, insomma, se trenta o quaranta o cinquanta anni fa in un mese ripercorrevo l’antica Via della Seta, adesso in una settimana perlustro tutte le chiese d’Olanda. Ovviamente ognuno in cerca del proprio paradiso.

Questo si chiama, anche, “consumismo”. Il nostro tempo, rassegnamoci, è costellato di mollicci tedeschi e sudaticci francesi e giapponesini stantii che guardano la chiesa di San Silvestro all’Aquila (o quel che ne è rimasto) senza comprenderne l’intrinseca grazia.

Ma c’è un’eccezione che si chiama Giorgio Manganelli. Scrittore misantropico noto – forse ingiustamente – per la sua battuta “Non l’ho letto e non mi piace” a proposito del libro d’un collega, di cultura ciclopica, nemico di tutto ciò che aveva a che fare con la gente e con ciò che pensava la gente. Manganelli ha condiviso con Alda Merini alcuni anni di amore maniacale e da questa esperienza sembra che l’intera sua narrativa sia stata influenzata e per sempre cambiata.

O forse no: i suoi estimatori, probabilmente, rigetterebbero in toto questa ipotesi. Nel suo intervento contenuto nel libro collettivo del Gruppo ‘63, Manganelli parla del valore fondamentale del libro (che non è romanzo, si noti bene) che è l’ilare leggerezza della menzogna. Come Calvino, anche in Manganelli l’interesse primario era per la metafora, per il linguaggio in sé. Paradossi, un certo narcisismo intellettuale e un sano malessere esistenziale che lo spinse a percorrere l’Oriente in lungo e in largo.

Risultato, invece, dei viaggi in Italia è La favola pitagorica (Adelphi, Milano, 2005, pp.214, 13 euro). Qui traspare la sua orgogliosa avulsione dalle masse di turisti che si polverizzano saltando da un museo a una chiesa: secondo lui quello non è viaggiare. E disprezza aristocraticamente il concetto stesso di museo: un supermarket dove Braque è affiancato al Bronzino come la carne in scatola Vaccaburrata al tonno Scannamerluzzo.

Manganelli, attraverso queste sue pagine di reportage letterari di viaggio, sembra dirci che nulla è viaggio se non ciò che scopriamo. Ed è proprio questo il messaggio: conservare la curiosità e l’individualità del senso della scoperta anche se tutto va ammassandosi in edifici sterili e squallidi (come non pensare alla leggendaria diatriba sugli Uffizi: un architetto giapponese voleva coprirli con una tettoia da autolavaggio di provincia. Probabilmente, se Manganelli fosse stato ancora vivo, l’avrebbe ucciso con una biro). Anzi, proprio perché la “mediocrazia” è giunta a comandare sfere come quelle dell’arte e del bello, e che capolavori sublimi vengono accatastati in aule sorde e grigie, Manganelli cerca di stimolare il lettore ad andarsi a cercare le primizie e le rarità che sono sfuggite alle guide turistiche.

Di essere il pioniere della propria meraviglia. E questo nobilita tutti noi: il messaggio è che tutti possiamo – in potenza – diventare raffinati fruitori di capolavori, ma che solo pochi di noi diverranno l’atto di quella potenza. La massa non conosce: il gregge si lascia guidare. Solo pochi, i migliori, gli aristocratici (in senso etimologico), hanno accesso alla bellezza: non per nascita, non per censo, ma per la propria predisposizione naturale. Per la loro congenita curiosità.

Manganelli è la metafora dell’uomo qualunque che, però, nobilita se stesso strappandosi alla mercificazione e alle pianificazione delle esistenze, degli incantamenti e dei sogni. Insomma, niente di meglio se si cerca un’idea per viaggiare oltre il proprio personale estero casalingo.