Inganno è pensare che l’acqua di Stato non produca profitti a spese nostre
08 Giugno 2011
Se qualcuno mi chiedesse se sono a favore della privatizzazione dell’acqua, risponderei no. Mille volte no, perché l’acqua è una risorsa naturale, quindi disponibile per qualsiasi essere vivente e per questo pubblica per definizione: chiunque può abbeverarsi ed utilizzare l’acqua alla fonte gratuitamente, sia essa affiorante ovvero nascosta nelle viscere della terra.
Il problema è che non tutti hanno la fortuna di vivere in prossimità di una fonte e non sempre l’acqua disponibile è potabile all’origine. In questi casi, la tecnologia soccorre i cittadini più sfortunati, che non hanno accesso diretto ad una risorsa di buona qualità, con opere di ingegneria per la potabilizzazione ed il trasporto dell’acqua che, fra l’altro, generano un grande indotto in termini di posti di lavoro: Imprese che costruiscono gli acquedotti, aziende pubbliche e private che gestiscono i potabilizzatori, adduttori, impianti di sollevamento (che consumano energia elettrica distribuita da società private), reti urbane, aziende di imbottigliamento e commercio di acque minerali (oggetto di concessioni, in genere rilasciate a società private), ecc. E l’elenco aumenta se si considera che, ormai da anni, la gestione dell’acqua avviene con lo schema del ciclo completo, includendo la depurazione dei reflui e lo smaltimento al recapito finale, con costi inclusi nella tariffa per l’approvvigionamento dell’acqua potabile. Tutto ciò avviene già all’attualità, generando un grande giro di affari che ruota intorno all’acqua, che viene gestito in parte da società private ed in parte da Enti di diritto pubblico.
Cosa ha a che fare questa premessa con i referendum sull’acqua? Assolutamente nulla; ed è qui il grande inganno con cui vengono propagandati i referendum, ormai ribattezzati “referendum per l’acqua pubblica”. In molti sono caduti in questa mistificazione, anche ambienti Cattolici che per anni, in settori completamente diversi da quello dell’acqua, si sono battuti per il principio di sussidiarietà, insidiato in maniera subdola da questi referendum. Se infatti è fuori di dubbio che l’acqua, in quanto bene primario, debba essere garantita a tutti a prescindere dal reddito, è anche vero che negare ai privati il diritto di gestire il servizio, traendone il legittimo guadagno, è contrario a qualsiasi principio di economia liberale e sembra essere un rigurgito di socialismo reale, secondo cui l’unico soggetto abilitato ad erogare servizi essenziali sia lo Stato. Se così fosse, allora si dovrebbe tornare a discutere della libertà dei cittadini di scegliere fra scuola privata e scuola di Stato, ovvero della libertà di cura in ospedali privati o in ospedali di Stato, ecc.
L’istruzione e la sanità, così come l’acqua, soddisfano bisogni essenziali delle persone, che in nessun caso possono essere negati e che non possono essere fonte di discriminazione sulla base del reddito o della posizione sociale. Ed è per questo che i gestori di tali servizi sono chiamati a svolgere un “servizio pubblico”. La vera confusione nasce dal considerare il termine “pubblico” come sinonimo di “statale”, da contrapporre alla parola “privato”, che si riferisce a tutto ciò che genera interessi di gruppi più o meno limitati di persone.
In realtà, sembrava acquisito il principio di sussidiarietà che, in una visione liberale della Società, impone allo Stato di soddisfare i bisogni primari delle persone, qualora questi vengano negati dal libero mercato ovvero dai corpi intermedi. Lo Stato, dunque, non deve sostituirsi alla libera iniziativa, ma deve intervenire con regole di salvaguardia e, nel caso in cui l’iniziativa privata non sia in grado di soddisfare le esigenze dei cittadini, deve surrogare il mercato, cercando comunque di ottimizzare il servizio. Fatta questa doverosa premessa di carattere generale, veniamo al tema specifico dell’Acqua e dei cosiddetti referendum sulla “privatizzazione”. Prima di rispondere ai quesiti referendari è importante conoscerne i contenuti e, per timore di cadere nella tentazione di manipolarne il significato, preferisco riportare fedelmente quanto scritto nelle schede referendarie:
Primo quesito: Modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica. Abrogazione. «Volete voi che sia abrogato l’art. 23 bis (Servizi pubblici locali di rilevanza economica) del decreto legge 25 giugno 2008 n.112 "Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria" convertito, con modificazioni, in legge 6 agosto 2008, n.133, come modificato dall’art.30, comma 26 della legge 23 luglio 2009, n.99 recante "Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia" e dall’art.15 del decreto legge 25 settembre 2009, n.135, recante "Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della corte di giustizia della Comunità europea" convertito, con modificazioni, in legge 20 novembre 2009, n.166, nel testo risultante a seguito della sentenza n.325 del 2010 della Corte costituzionale?»
Secondo quesito: determinazione della tariffa del servizio idrico integrato in base all’adeguata remunerazione del capitale investito. Abrogazione parziale di norma «Volete voi che sia abrogato il comma 1, dell’art. 154 (Tariffa del servizio idrico integrato) del Decreto Legislativo n. 152 del 3 aprile 2006 “Norme in materia ambientale”, limitatamente alla seguente parte: “dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito”?». Tradotto in termini più chiari, il “sì” al primo quesito cancellerebbe una norma, richiesta all’Italia dall’Unione Europea, che consente di affidare la gestione dei sistemi acquedottistici ai privati, per lasciarla ad Enti di Diritto pubblico, controllati, direttamente o indirettamente, dalla pubblica amministrazione (Stato, Regioni, ecc.). Il “Sì” al secondo quesito, invece, nega agli Enti gestori, di qualsiasi natura essi siano, di trarre il giusto profitto dal servizio di erogazione dell’acqua.
Entrambi i quesiti sembrano riconducibili ad un unico interrogativo che ha animato il dibattito tecnico e scientifico degli anni ’80, ovvero quello sulla natura sociale o economica del bene acqua. Senza ripercorrere il dibattito serrato di quegli anni, si giunse alla conclusione che le due definizioni non potevano essere disgiunte giacché l’acqua ha sì un valore sociale, ma anche un costo di “produzione” che non può sottrarsi alle regole di mercato. In altri termini i cittadini devono essere garantiti dallo Stato per il soddisfacimento di un diritto inalienabile, ma, nel contempo, non è possibile sottrarre l’acqua alle leggi di mercato, in quanto la capillarizzazione della distribuzione ed il miglioramento del servizio sono oggetto di processi industriali e commerciali, che richiedono ingenti investimenti ed esigono adeguati ricavi. D’altra parte, nei decenni passati, l’Italia ha già privatizzato altri Enti che fornivano pubblici servizi (Telecomunicazioni ed energia); spesso lo ha fatto male, regalando a privati infrastrutture pagate con i soldi dei contribuenti, non fissando sufficienti regole di tutela per gli utenti, ma il dato di fatto è che l’efficienza del servizio è migliorata e le tariffe non sono aumentate; anzi, in molti casi sono addirittura diminuite.
E si deve ancora aggiungere che lo Stato Italiano non è stato in passato un campione di tutela dei diritti essenziali dei cittadini: quante utenze (acqua inclusa) sono state tagliate dalle aziende (statali e non) per insolvenza? Ed in quanti casi le aziende si sono preoccupate di verificare se l’insolvenza era effettivamente legata ad uno stato di necessità che impediva il pagamento delle bollette? Giova ricordare che negli Stati Uniti d’America, campioni di liberismo a volte sfrenato, le aziende private hanno pesanti limitazioni nel sospendere il servizio per insolvenza, per una serie di norme di tutela del cittadino che non può essere privato di servizi essenziali.
Non è quindi importante capire chi gestisce il servizio, ma capire come, con quali regole e con quali tutele per il cittadino. Forse ai più è sfuggito, ma il processo di privatizzazione del servizio idrico era già stato avviato sul finire del secolo scorso. Per tale ragione Enti importanti come l’Acquedotto Pugliese erano stati trasformati in SpA e, per la stessa ragione, si erano istituite le Autorità d’ambito, con il compito, fra l’altro, di controllare l’Ente gestore e di pronunciarsi sulle tariffe. Il processo si è interrotto con l’avvento di Vendola alla presidenza della Regione e con il ritorno dell’AQP sotto il totale controllo regionale. Insomma, si è trattato di una “privatizzazione a tempo”, quello necessario per procedere all’assunzione di personale senza l’obbligo di pubblici concorsi e per istituire un nuovo Ente regionale (l’Autorità d’ambito), con tanto di dirigenti e funzionari, con il compito di controllare un altro Ente regionale, con sperpero di risorse dei contribuenti.
In ogni caso, a prescindere da chi gestisce gli acquedotti, gli investimenti nel settore idrico impongono un’attenta analisi costi benefici, in cui i costi sono determinati dalla costruzione e gestione delle opere ed i benefici, oltre a quelli sociali, derivano dalle tariffe applicate per l’erogazione dell’acqua. Quest’ultimo aspetto, in passato, è stato colpevolmente trascurato. Il denaro dei contribuenti è stato sperperato per costruire opere che non avevano alcuna possibilità di autosostenimento. Si potrà obiettare che quelle opere hanno comunque prodotto un grande beneficio sociale. E’ vero, ma lo stesso beneficio si sarebbe potuto ottenere con metodi molto più economici, con conseguente riduzione delle tariffe.
La remunerazione del capitale investito introduce al secondo quesito, propagandato con lo slogan “l’acqua non si vende”. Ed allora perché si pagano bollette così salate? Il mancato utile sui costi di investimento era certamente giustificabile nei primi decenni del secolo scorso, quando l’acqua corrente nelle abitazioni era un miraggio in molte aree del territorio nazionale e quando nessun privato avrebbe avuto le risorse necessarie per le grandi infrastrutture, specie nel Mezzogiorno d’Italia. In quelle condizioni, sempre per il rispetto del principio di sussidiarietà, l’intervento dello Stato era ampiamente giustificato.
Ora i tempi sono cambiati, i grandi acquedotti sono già esistenti e gli investimenti necessari servono per recuperarne l’efficienza e ridurre le perdite, troppo spesso superiori all’acqua realmente distribuita. Il recupero delle perdite è un dovere, sia dal punto di vista ambientale che economico.
Certo, se l’acqua non deve considerarsi bene economico, ma solo bene sociale e se i costi di investimento sono una variabile indipendente rispetto alla determinazione della tariffa, allora la gestione virtuosa della risorsa è una pratica inutile: molto meglio attingere alle casse dello Stato per realizzare nuovi acquedotti piuttosto che spendere denaro degli Enti di gestione per mantenere le vecchie tubazioni. Ed ancora, se l’acqua è esclusivamente bene sociale ed il compito degli Enti acquedottistici è quello di garantire la distribuzione a tutti, che senso ha investire denaro per il recupero delle perdite apparenti (ovvero acqua distribuita ma non fatturata)? In fin dei conti i costi per il recupero di questa risorsa sarebbero maggiori delle somme recuperate dalla fatturazione. Sulla base di queste semplici considerazioni, per anni gli Enti hanno gestito malissimo le risorse dei contribuenti, ritenendo loro compito primario quello di distribuire capillarmente la risorsa idrica, senza ottimizzarne i costi.
Solo negli ultimi anni si è compreso l’importanza di una gestione economica dell’acqua e, in barba ai referendari, convinti che allo stato attuale le tariffe non siano già remunerative, i bilanci di alcuni Enti hanno chiuso i bilanci in attivo, sulla pelle degli utenti, chiamati a pagare tariffe elevatissime per coprire le inadempienze gestionali del passato, ma anche per garantire la giusta remunerazione del servizio. C’è da augurarsi che i promotori dei referendum utilizzano la stessa solerzia utilizzata in queste settimane per indurre gli Enti a ridurre il costo dell’acqua in ossequio al principio che il “profitto è sterco del demonio”, ma c’è anche da scommettere che, al contrario, l’utile degli Enti verrà utilizzato per alimentare piccole e grandi clientele.
Dunque i cittadini pagano l’acqua ed è un falso ideologico sostenere che, con il sistema attuale, l’acqua non sia soggetta a compravendita. In realtà è vero esattamente il contrario, anche se questo commercio sfugge alle leggi di mercato.
Basti pensare all’accordo di programma (poi fortunatamente disatteso) fra la Regione Puglia e la Basilicata, con il quale la prima riconosceva alla seconda un corrispettivo a metro cubo per le risorse ubicate in Basilicata e distribuite ai Pugliesi. Si potrà obiettare che si trattava di un prezzo simbolico, come riconoscimento di un sacrificio di una regione a beneficio di un’altra, ma sempre di compravendita si tratta. Questo accordo di programma, inoltre, suscita un altro interrogativo: ma l’acqua è un bene pubblico, o appartiene esclusivamente alle comunità che abitano i territori dove questa risorsa è disponibile? Certamente oggi non sarebbe possibile realizzare, in nome della solidarietà nazionale, i grandi acquedotti che alleviarono le sofferenze della sitibonda Puglia, tutti alimentati da risorse extraregionali. Ed infatti, la Puglia aspetta ancora di poter utilizzare risorse inutilizzate del Molise per il mancato accordo fra le Regioni.
Ed esistono situazioni ancora più imbarazzanti, in cui la compravendita dell’acqua non solo è praticata abitualmente, ma determina situazioni grottesche. Basti pensare al caso AQP che, per scelte strategiche perpetuate fino agli anni ’60, aveva sempre cercato acque potabili alla fonte, rifiutando l’idea di costruire dighe che rendono disponibile una grande riserva idrica, ma impongono notevoli costi di potabilizzazione.
E’ accaduto che, negli anni, la risorsa potabile scarseggiava sempre di più e l’acquedotto pugliese ha dovuto ripiegare sugli invasi che nel frattempo erano stati costruiti dall’Ente Irrigazione o dai Consorzi di bonifica. Il risultato è stato che l’AQP acquista acqua da tali enti per rivenderla agli utenti. Nulla di male se l’AQP pagasse il dovuto, con la stessa solerzia con cui pretende i pagamenti delle bollette. In realtà il debito dell’AQP verso gli Enti che gestiscono le dighe è ormai a livelli di preoccupazione, così come il quello verso l’ENEL per la fornitura dell’energia necessaria per mandare avanti gli impianti. E se quest’ultimo Ente, privato, riesce comunque ad andare avanti ed a garantire il servizio ai cittadini, per i Consorzi la situazione è veramente imbarazzante se è vero, come peraltro riconosciuto dalla Regione Puglia, che il debito complessivo dei consorzi è confrontabile con quello accumulato dalla Sanità. Certo i fattori che determinano il passivo dei consorzi non è addebitabile al mancato pagamento dell’AQP o all’errata tariffazione delle acque irrigue, ma è altrettanto vero che l’aver trascurato il valore economico dell’acqua non ha giovato alle casse dei Consorzi.
Dunque l’acqua è bene economico e, come tale, deve produrre profitti. La situazione opposta (acqua bene sociale), imporrebbe una filosofia completamente diversa: ciascuno paga secondo le proprie possibilità e non a consumo. Insomma, una fiscalità destinata a garantire a tutti il godimento del bene, sul modello di quanto accade per la Sanità. In conclusione, l’affidamento del servizio idrico a società private non necessariamente produce un aggravio per il cittadino ed anzi, può contribuire a migliorare l’efficienza complessiva con un conseguente un vantaggio economico per tutta la collettività. Se ciò determina un giusto profitto, non credo si debba gridare allo scandalo, a meno che non si voglia sposare la tesi che il “profitto è sterco del Diavolo”, ma allora ritorniamo al Socialismo reale che affida allo Stato centrale tutti i servizi al cittadino.