Insieme a Mazzini e Garibaldi c’è posto per il Risorgimento delle donne
26 Settembre 2010
L’appoggio degli Inglesi all’unità d’Italia fu, in perfetto stile britannico, poco appariscente ma sostanzioso. Fervido, almeno a parole, nel 1851 (quando Gladstone, soggiornando a Napoli, definì il regime borbonico “la negazione di Dio eretta a forma di governo”), si ammantò di prudenza al congresso di Parigi del 1856 e nel biennio 1858-59, allorché la spregiudicatezza di Cavour fece temere una guerra che potesse sconvolgere gli equilibri europei; e infine tornò deciso, e politicamente decisivo, durante la spedizione dei Mille, la stagione delle annessioni e al momento della proclamazione del Regno d’Italia. Pur con qualche distinguo, la schiera dei sostenitori del processo di unificazione italiano era in Inghilterra piuttosto nutrita. Ne facevano parte capi di governo, ministri, diplomatici, militari e uomini d’affari. E poi c’era una donna, una giornalista, che alla causa italiana diede molto più che un generico sostegno.
Jessie White, questo il suo nome, è definita dalla Vulgata, in tono vagamente liquidatorio, “pasionaria” o “suffraggetta”; ma in realtà fu ben altro. Confidente di Mazzini e Garibaldi, cronista e infermiera dei Mille, modello di autentica emancipazione femminile, protagonista e cantore dell’epopea risorgimentale. Non bella né attraente (nonostante i tratti delicati e la lunga chioma bionda) ma tenace e passionale, divenne per intelligenza, altezza di ideali e fede incrollabile nella democrazia una delle figure di primo piano del Risorgimento italiano. Una figura a sé stante, appartata, resa ancora più affascinante dal suo orgoglioso isolamento.
Jessie Meriton White nacque a Portsmouth nel 1832 da una ricca famiglia di armatori. Studiò medicina in Inghilterra e poi filosofia alla Sorbona. Non riuscì a diventare la prima donna-medico inglese ma finì lo stesso nei libri di storia attraverso un percorso tortuoso, patriota in nome di una patria che non era la sua. A Parigi lesse gli scritti di Mazzini restandone folgorata; poi, a metà degli anni ’50, conobbe Garibaldi e lo seguì per un breve soggiorno a Nizza e in Sardegna insieme ad Emma Roberts, sua compagna di studi alla Sorbona, allora sentimentalmente legata al Generale. Il carisma dell’eroe dei due mondi la conquistò definitivamente alla causa risorgimentale: nel 1857 lasciò Londra e si trasferì in Italia per militare nel Partito d’Azione e contribuire attivamente alla lotta per l’indipendenza.
Il 1857 fu per Jessie un anno dolceamaro. Il 24 giugno ricevette da Carlo Pisacane il suo testamento politico e dopo il fallimento della spedizione di Sapri, e dei correlati moti di Genova e Livorno, finì al fresco nelle carceri sabaude. Nello stesso anno, in circostanze romantiche e avventurose, sposò Alberto Mario, tiepido mazziniano convertito al federalismo di Cattaneo.
La vita da rivoluzionaria era grama e frustrante. Tutti i tentativi del Partito d’Azione sembravano votati al fallimento per l’impreparazione o l’azzardo dei protagonisti e le cautele del gioco politico. Fino alla svolta della spedizione dei Mille, in cui Jessie White svolse un compito prezioso e delicato.
Nel giugno del 1860 raggiunse Garibaldi in Sicilia per organizzare un corpo di ambulanze e seguì il viaggio della spedizione attraverso l’Italia meridionale. Di fronte allo spettacolo di quei mille uomini, malvestiti e male armati, che avanzavano allo sbaraglio fu spinta a chiedersi, con un pizzico di retorica, se gli Italiani erano la più folle o la più sublime delle stirpi. A settembre giunse con Garibaldi a Napoli e in coro con i più autorevoli esponenti del Partito d’Azione cercò di convincere il dittatore pro tempore a voltare le spalle ai Savoia e instaurare la repubblica. Ma Garibaldi rifiutò ogni forzatura e la White si trovò a sperimentare per la prima volta una drammatica condizione di sdoppiamento: esaltata dal trionfo personale dell’Eroe dei due mondi e rattristata per l’amara uscita di scena di Mazzini.
Nei primi anni dell’unità girò l’Europa e tenne perfino un ciclo di conferenze negli Stati Uniti per fare propaganda e proseliti in favore della causa italiana. Sempre più divisa tra l’intransigenza di Mazzini e la praticità di Garibaldi, provò a non scontentare nessuno. L’Apostolo lanciò la nuova parola d’ordine, “Roma e Venezia”, e lei aderì entusiasta; Garibaldi si rimise sulle orme dei Mille e lei accorse al richiamo giungendo da Londra in Aspromonte. Troppo tardi per partecipare alla battaglia, ma in tempo per assistere il medico Zannetti mentre toglieva una pallottola dal piede destro del Generale. Poi si precipitò da Mazzini a riferire sulle sue condizioni e lo sentì sinceramente preoccupato per la salute dell’uomo “più importante per l’Italia”.
Dopo il “voltafaccia” di Napoli, il gran rifiuto di proclamare la repubblica e la consegna dell’Italia meridionale ai Savoia, i rapporti tra i due si erano fatti tesi. L’Apostolo aveva lanciato strali contro le presunte indecisioni del compagno: “La debolezza di quell’uomo ha del favoloso”; il Generale era giunto ad accusare l’antico maestro di aver ostacolato la conquista della Sicilia. Ciò nonostante nel privato sopravvivevano sentimenti di fratellanza e di affetto autentico.
La White ne era consapevole e credette di poterne trarre considerazioni più generali di carattere politico. Tutta la sua opera di scrittrice, in particolare le biografie di Garibaldi e il saggio “Della vita di Giuseppe Mazzini”, fu dedicata ad attenuare le linee di frattura tra i due grandi miti della tradizione repubblicana e a presentare un quadro unitario della sinistra risorgimentale italiana. L’editore Treves di Milano attribuiva alla missione un’importanza cruciale e confidava nella capacità della White di raccogliere e maneggiare le fonti del racconto storico. Una capacità indiscutibile ma poco conforme a un metodo rigoroso, tutta indirizzata a una ricostruzione dei fatti personale e non di rado decisamente “parziale”.
Nel suo romanzesco epos Jessie White considerava come “la fortuna dell’Italia” il primo incontro tra Mazzini e Garibaldi nella tarda primavera del 1833. In realtà l’incontro, seppure avvenne, fu molto sbrigativo. Garibaldi, infiammato dai discorsi del socialista saintsimoniano Emilio Barrault e del “credente” (un misterioso marinaio di stretta fede mazziniana incontrato sul Mar Nero), si aspettava di incontrare il messia e ricevere da solo a solo il dono dell’illuminazione; Mazzini neanche lo notò in mezzo alla folla di giovani entusiasti che accorreva al suo cospetto. Eppure, nel racconto della White, da quel momento si formò un connubio inscindibile e decisivo per le sorti dell’Italia, un corpo mistico ammantato di luce soprannaturale. Mazzini poteva benissimo considerarsi “il Cristo del secolo”, Garibaldi era il suo Giovanni Battista e lei stessa, instancabile predicatrice dell’unità, era “posseduta dall’angelo” (secondo l’efficace definizione della studiosa inglese Elizabeth Adams Daniels).
Dopo l’Aspromonte Jessie si stabilì a Firenze, dove nel 1865 accolse al grido di “traditore” Vittorio Emanuele II che vi trasferiva la capitale facendo mosse di rinunciare a Roma. Alla collaborazione col Morning star e lo Scotsman, intanto, aggiungeva l’incarico di corrispondente dall’Italia per conto della Nacion di Buenos Aires, il giornale per cui scrisse più a lungo (143 minuziosi reportage tra il 1866 e il 1906).
Nel 1866 tornò a combattere al fianco di Garibaldi in Trentino. Fu testimone della vittoria di Bezzecca e poi delle triste ritirata dei garibaldini per ingiunzione del generale Lamarmora, diffidente verso ogni iniziativa dei corpi volontari. “Ho visto rompere spade, spezzare baionette”, scrisse di quei giorni, “molti gettarsi a terra e ravvoltarsi nelle zolle ancora inzuppate del sangue dei fratelli”. Era l’ora del lapidario, rassegnato “obbedisco” di Garibaldi.
L’anno dopo Jessie condivise col Generale anche lo scacco di Mentana, nell’inutile tentativo di conquistare Roma. Si prodigò per recuperare il cadavere di Enrico Cairoli e rimase prigioniera dei Francesi, assistendo per le vie della Città Eterna alla malinconica sfilata dei garibaldini in catene, piegati dagli chassepots nell’agro romano. Tre anni più tardi, con la guerra franco-prussiana e la caduta di Napoleone III, lo Stato Pontificio perse ogni difesa; ma il 20 settembre del 1870, quando i bersaglieri aprirono la breccia di Porta Pia realizzando il sogno di unire Roma all’Italia, né Garibaldi né la White erano sul campo. Ricomparvero qualche mese più tardi, l’infermiera dei Mille e il Generale acciaccato e immusonito, in soccorso della repubblica proclamata a Parigi e nella battaglia di Digione e i volontari garibaldini tennero testa per giorni alla poderosa macchina da guerra prussiana.
Fu l’ultima volta. Dopo di allora più nessuna battaglia. Garibaldi si rinchiuse nell’esilio volontario di Caprera, riverito e scontento, e Jessie White tornò a scrivere del Risorgimento, visitò Roma, ne descrisse l’atmosfera post-unitaria e le contraddizioni. Finito il tempo dell’azione, per la pasionaria si aprì quello delle memorie. E degli addii.
Nel 1872 perse la guida di Mazzini, morto a Pisa in clandestinità, e dieci anni più tardi il faro stesso della sua esistenza, quel Garibaldi il cui mito aveva contribuito a creare e diffondere nel mondo come nessun altro. L’anno prima era stata colpita da paralisi a tre dita della mano destra, una menomazione che riuscì a superare grazie all’impiego di un provvidenziale ritrovato della tecnica: la macchina da scrivere. La sua attività giornalistica poté proseguire senza rallentamenti: il suo nome compariva ormai sulle riviste del mondo moderate come sui fogli del radicalismo e del repubblicanesimo. Iniziò a collaborare con la Nuova Antologia, di cui era diventato direttore nel 1882 Francesco Crispi, si dedicò alla stesura delle biografie di Agostino Bertani e Giovanni Nicotera.
In tutto questo l’impegno politico non venne mai meno, sostenuto da un fiuto raro e da una singolare adattabilità al corso degli eventi. Ancora all’inizio del ‘900 fu lei a caldeggiare l’ingresso nel governo di alcuni esponenti del partito radicale. “Fatta l’Italia, bisogna fare gli Italiani”: senza rinunciare alle sue battaglie, Jessie White capì che era necessario creare un clima politico sereno e propizio ad “allevare” il popolo italiano. Alla fine l’esempio di Garibaldi, mediare tra gli ideali astratti e le possibilità concrete del momento storico, aveva prevalso. La lezione di Mazzini restava per l’anima e la vita quotidiana. Quando Jessie morì più che settantenne nel 1906 perfino da oltreoceano si levarono voci di sincero cordoglio: ne lodavano la sensibilità a tutte le miserie, il disprezzo per i beni materiali, il modo di vivere quasi ascetico.