Israele non è più invincibile e i nemici della democrazia puntano a Occidente

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Israele non è più invincibile e i nemici della democrazia puntano a Occidente

07 Luglio 2009

Cari amici,

ho sentito parlare di pace, uguaglianza, libertà. Belle parole. Peccato che poi suonino i cannoni. Ho sentito molte certezze negli interventi precedenti. Beati voi. Io invece nutro un sacco di dubbi e oltre al testo vorrei ricordare a tutti noi che c’è il contesto.  Quale? Ecco, osservate la prima pagina del settimanale Time: Obama e l’Orso Russo. Ora osservate la cover di questo bel mensile, è un prodotto editoriale dell’Eni, si chiama Oil: il titolo è “la scelta”, la mappa visualizzata è quella dell’Iran. L’Italia, bisogna ricordarlo, è uno dei principali partner commerciali dell’Iran. Su questo foglio invece ci sono le news d’agenzia del summit tra Russia e Stati Uniti, il titolo è sull’accordo sul disarmo nucleare, ma la notizia è un’altra: c’è dissenso totale sul sistema antimissile che gli Stati Uniti vogliono piazzare in Polonia.

Il casus belli sul quale è ripartita una nuova Guerra Fredda non ha trovato una soluzione, la tensione su questo punto resta. Inoltre, la pur nobile idea del presidente americano di ridurre le armi nucleari, in realtà avvantaggia la Russia che ha un arsenale vecchio, con una scarsa manutenzione, e riduce il potere di deterrenza degli Stati Uniti proprio nel momento in cui sta ripartendo la proliferazione atomica. Tutto questo ha molto a che fare con Israele, è la scacchiera del gioco. E’ il contesto che in realtà produce il testo e questo nostro incontro si svolge alla vigilia del G8 dell’Aquila, mentre a  Mosca Barack Obama e Dmitri Medvevdev cercano un nuovo difficile equilibrio: la Russia deve spuntare l’obiettivo di farsi accettare come potere egemone nella regione (Caucaso, Bielorussia, Ucraina, Georgia, tutta l’Asia centrale).

Gli Stati Uniti cercano al contrario di non perdere lo status di potenza egemone globale in un periodo di crisi economica e di taglio del bilancio della Difesa. Il problema è tutto qui nella sua brutale semplicità. Ho preso le mosse da Obama e Medvedev (e l’ombra gigantesca di Vladimir Putin) perché è dalla convenienza storica di Russia e Stati Uniti che 60 anni fa nasceva Israele. Entrambi cercavano di trarre un vantaggio geopolitico dalla nascita in Medio Oriente di uno Stato che occupava lo spazio geografico che un tempo era dell’impero britannico. Ecco perché gli esiti del vertice di Mosca e quelli del G8 saranno molto importanti per il futuro di Israele. In passato Russia e Stati Uniti hanno giocato il ruolo di pivot in Medio Oriente grazie a Israele. Si apprestano a farlo ancora. Per Israele si pone, ancora una volta, la questione del suo Essere nel Mondo, o meglio, della sua esistenza e permanenza nella regione del Medio Oriente e in quella zona geopolitica e letteraria che si chiama Levante e che da qui si dispiega in tutta l’Eurasia, l’area del Grande Gioco magistralmente raccontata dal romanziere Ryduard Kipling.

Tre modelli, uno Stato
Tremila anni di storia ci dicono che Israele è giunto fino a noi attraverso tre modelli:
1.    Il modello David. Israele è completamente indipendente e questo avviene in assenza di poteri imperiali nella regione.
2.    Il modello persiano. Israele mantiene la sua autonomia e identità ma non ha più capacità di manovra nella politica estera perché fa parte di un sistema di potere imperiale.
3.    Il modello babilonese. Israele perde completamente identità, autonomia, status giuridico e subisce la deportazione del suo popolo.

Tre dimensioni che giungono ai nostri giorni con gli esiti della Seconda Guerra Mondiale, il declino della Gran Bretagna del suo Impero, l’ascesa di Stati Uniti e Russia che creano le condizioni per la nascita di Israele nella forma del modello David, o meglio un "quasi-David", perché non dobbiamo dimenticare il ruolo chiave giocato dagli Stati Uniti fin dagli anni Sessanta.

La minaccia esterna
E’ sempre la storia ad offrirci lezioni a piene mani e a dimostrarci che la minaccia vitale per Israele non giunge dai paesi confinanti, ma da poteri lontani che puntano a giocare un ruolo imperiale e per questo guardano all’espansione a Levante e nel Mediterraneo Orientale come una tessera chiave del mosaico di potenza. Ecco perché il problema centrale per l’esistenza di Israele, la sua presenza nella carta geografica, non è il Libano storicamente instabile, non è Gaza né la West Bank con i suoi palestinesi male armati, non è l’Egitto stabile, non è la Siria incapace di manovra autonoma, non è la Giordania, ma è l’Iran, l’antico e mai domato spirito del Persian Power, potere rivoluzionario e non conservatore.

In questo scenario la nascita di Israele non è un fatto religioso, il sionismo non è il punto centrale del nostro discorso, siamo di fronte un fatto geopolitico: il declino del Regno Unito, la comparsa di Stati Uniti e Russia nel Grande Gioco e il loro interesse contrapposto a manovrare nel Mediterraneo Orientale influenzando i destini di Grecia, Turchia e Israele. La Russia con l’ideologia, le radici russe di molti ebrei (e la prima fornitura di armi attraverso la Cecoslovacchia nel 1948), gli Stati Uniti con la politica di difesa (e quando serviva attacco). L’obiettivo è sempre il Levante.

E’ dal 1967 che Israele diventa un alleato chiave degli Stati Uniti. Quando Washington controlla il Bosforo per bloccare l’ingresso delle navi sovietiche nel Mediterraneo e quindi ha bisogno della Turchia e Israele per pressare la Siria a Sud e calmare le sue mire espansionistiche a Nord.
Così le mosse di Israele sono sempre tra gli spazi di manovra delle due potenze e il suo modello David sempre limitato da Stati Uniti e Russia. Limitato ma relativamente sicuro. Fino a oggi. Fino a quando l’Iran di Ahmadinejad non si mette di nuovo in marcia per tornare ad essere un potere imperiale, il leader della regione, e comincia a costruire la Bomba.

A questo punto della storia, dopo il cambio di rotta alla Casa Bianca, scopriamo che il modello David appoggiato solamente agli Stati Uniti non basta più. Per questo è fondamentale capire il gioco della Russia. Per questo occorre essere molto più intelligenti e astuti – sì, astuti è la parola giusta – che in passato. I missili di Ahmadinejad verranno puntati a Levante e a Nord, su Israele, sui vicini e sull’Europa.  

E qui torniamo al contesto. Ai fatti, alle notizie di oggi. Il vicepresidente degli Stati Uniti Joe Biden di fronte a questo movimento d’arsenali dice che “Israele può colpire” e che ha la sovranità per decidere. Interessante, soprattutto se dal contesto guardiamo al testo che ci tramanda la storia. E qui qualcosa non torna. Obama e Biden forse giocano a fare la parte del poliziotto buono e del poliziotto cattivo, ma potremmo anche leggere le frasi del vicepresidente in un’altra chiave: la certificazione che Israele è tornato nel modello David in full power, senza limitazioni e dunque presenta ora, qui, adesso, Israele come uno Stato libero di arrangiarsi perché non più a sovranità limitata (in politica estera) e di fronte alla sua responsabilità di agire con un preemptive strike.

Curioso ribaltamento no? Siamo forse di fronte al disimpegno dell’agenda militare – e sottolineo militare – degli Stati Uniti nei confronti del problema iraniano? Signori, io mi chiedo e vi chiedo: cosa sta succedendo tra Washington e Gerusalemme? La Casa Bianca riconsegna a Israele il modello David, ma in presenza di un potere imperiale in piena fase di politica di potenza, l’Iran. Quanto può durare l’autonomia e l’indipendenza di una nazione sotto potenziale minaccia nucleare? Ho letto stamattina che i top official dell’amministrazione israeliana sono molto scettici sulla riuscita dei colloqui con l’Iran. E già prospettano un “piano B”, un carico di sanzioni talmente grande da paralizzare l’economia iraniana.

Ho anche letto che dalla Casa Bianca rispondono picche, che non è il momento e non si può lavorare in parallelo a un draft di sanzioni con i colloqui in corso. E’ uno scenario molto istruttivo, perché l’intelligence israeliana considera la possibilità di successo del round diplomatico vicina allo zero, mentre Washington va avanti con la mitologica strategia del soft power e nel frattempo a Teheran vedono che la loro tattica di talk and build (la bomba) ha un successo enorme. Prendono tempo. E l’Occidente gli consegna la clessidra.

Nel frattempo in Iran è successo qualcosa: le elezioni sono state vinte ancora dal presidente Ahmadinejad. Certo, ci mancherebbe, so che ci sono state le proteste dell’opposizione e qualcuno in Europa si è strappato persino le vesti perché il regime ha bloccato Twitter e Facebook! Mentre a Busher si arricchisce l’uranio, qualcuno si meraviglia che dei satrapi censurino la rete, arrestino persone, uccidano manifestanti. Il fondamentalismo, che orrore per gli occhi dei colti europei e dell’establishment. Siamo al delirio e navighiamo in un oceano d’ipocrisia.

L’arte (perduta) della guerra
Torniamo alle frasi cripto-illuminanti del vicepresidente Biden e poniamoci la domanda: Israele può agire da solo? Può farlo, certo, ma sono pronto a scommettere che ne conseguirebbe un agghiacciante isolamento internazionale. E inoltre c’è da considerare che la qualità degli interventi militari israeliani – e della sua azione preventiva e successiva di intelligence – è in pesante discussione fin dal 2006.

Dalla campagna militare in Libano e dall’invasione nella striscia di Gaza giungono segnali e lezioni preoccupanti. Israele non è più invincibile. Chi ha letto i report sulle due campagne militari sa di cosa parlo. Hezbollah si è dimostrato un nemico temibile e organizzato in grado di rispondere al fuoco e fronteggiare i tank con missili anticarro, evento imprevisto per l’intelligence israeliana. Hamas un avversario capace di rigirare a suo favore una (semi)sconfitta militare attraverso un uso spregiudicato della percezione della guerra. In entrambi i casi, inoltre, non solo la tattica e la strategia del conflitto sono state sbagliate, sul Libano si è arrivati a costituire una commissione d’inchiesta per capire dove stava l’errore e su Gaza abbiamo assistito a un imbarazzante stop and go dell’operazione Cast Lead, a un assedio incompiuto.

L’obiettivo politico delle due campagne militari è inoltre mancato clamorosamente. Hezbollah è ancora una minaccia, Hamas nel frattempo ha approfittato del caos durante e dopo l’operazione Piombo Fuso per regolare i conti con al Fatah. Non è un bel risultato e non mi pare il caso, in queste condizioni, di lasciare che Israele sia travolto dalla sua crisi di leadership politica e militare, dai suoi errori, dalla cronica mancanza di coraggio dell’Europa e dalla finora contraddittoria risposta della nuova amministrazione americana, incapaci di vedere lo sguardo dei nemici della democrazia, ancora una volta, partire da Levante per mirare a Occidente. 

Mario Sechi è il vicedirettore di Panorama