“Italian Fusionism”. C’è una storia del pensiero liberale da raccontare
05 Dicembre 2010
di Luca Negri
Tramontate le ideologie novecentesche, entrata in crisi la stessa distinzione tra Destra e Sinistra ereditata invece dall’800, sembrano più legittime le incursioni e più fecondi i matrimoni fra idee politiche di diversa estrazione. Si impongono nuove sintesi proprio per dover ripensare, se non lasciare proprio alle spalle, quello che venne chiamato mondo moderno.
Infatti gli intellettuali raccolti da Gianfranco Fini nella sua fondazione “Fare Futuro” rivendicano l’assoluta libertà nel mischiare Sinistra e Destra per produrre alchemicamente politica d’avanguardia. E talvolta succede che evochino assieme al Futurismo lo spirito San Sepolcrista del 1919, quando l’anima del Fascismo era soprattutto di sinistra e rivoluzionaria. Non hanno tutti i torti, giacché l’esperimento mussoliniano non è liquidabile come meramente di destra, tutt’altro.
La loro sintesi politica assume dunque i caratteri di un certo “fasciocomunismo” (forte è la suggestione lanciata dallo scrittore Antonio Pennacchi, vincitore del Premio Strega con Canale Mussolini). Ovvio che il destino di questa proposta culturale dipenderà dalle odierne e future scelte tattiche di Fini; la costruzione del “grande centro” moderato con Casini e Rutelli potrebbe esigere un ridimensionamento di alcune provocazioni (il rischio è quello di scivolare dal “comunista in camicia nera” Nicola Bombacci al monaco Dossetti o al maestro elementare Don Milani, per intenderci). Ma il tentativo di fusione fra tradizioni e soluzioni politiche è in sé necessario.
Forse per farla finita veramente con il Novecento, è però un’altra la strada da percorrere. Con nessuna traccia di “fasciocomunismo”, ma liberale nel senso più alto e tradizionalista in quello più puro. Una strada che si tenga lontana da statalismo e legalismo e al contempo non incentivi il processo di secolarizzazione.
È forse la strada indicata negli Usa con il termine “Fusionism”. Il lettore italiano ne trova traccia per ora solo in alcuni articoli di Marco Respinti (un nome che non ha bisogno di presentazioni per i lettori de l’Occidentale) raccolti nel suo L’ora dei “Tea party”, edito da Solfanelli nella collana U.S. polis (diretta dallo stesso Respinti e dedicata al pensiero conservatore anglo-americano).
Infatti per comprendere i Tea parties, la vera novità politica statunitense (dal momento che il lustro di Obama pare svanito) non si può fare a meno di conoscerne alcune delle basi teoriche e culturali. E sarà forse ancor più utile cogliere consigli e stimoli da oltreoceano per gestire il mutare dei paradigmi politici ed immaginare soluzioni alla crisi di proposta politica in area centro-destra.
Il Fusionismo è, in sintesi, l’incontro della vocazione libertaria (ben distinta negli States da quella “liberal”, anche detta radical-chic) con quella tradizionalista ovvero religiosa, dunque, trattandosi d’Occidente, giudeo-cristiana. Come spesso accade nel mondo della cultura e della politica la definizione, oltre ad essere stretta, fu attribuita per denigrazione, per rimarcare quanto l’invocata fusione fosse velleitaria. Ma alla fine il principale teorico di questo conservatorismo libertario, Frank Straus Meyer (1909 – 1972) la fece sua.
Gli anni in cui gettò nel dibattito politico la proposta fusionista erano quelli della guerra fredda; per Meyer, ebreo secolarizzato poi convertitosi al Cattolicesimo, la priorità era quella di sconfiggere il modello comunista dell’Urss. La lotta interna invece andava combattuta per difendere dall’invadenza dello Stato la libertà dell’individuo, e il senso del sacro dal laicismo avanzante. Per certi versi si trattava di un ritorno al liberalismo classico, quello di Edmund Burke, non per nulla contemporaneo e critico della Rivoluzione Francese. Arricchito però e rinforzato dall’esperienza di due secoli.
Da allora, non tutti coloro che si definiscono “fusionisti” si sono riconosciuti nella proposta politica del Partito Repubblicano, fin troppo piccolo per includere il vivace e contraddittorio mondo conservatore nordamericano. Nonostante ciò, i loro voti sono stati sicuramente fondamentali per portare alla Casa Bianca Ronald Reagan prima e George W. Bush poi (ancor di più in occasione del secondo mandato nel 2004).
Ora, nel panorama politico italiano è pensabile una proposta simile, “antiprogressista ma non contraria al vero progresso, antimodernista ma modernizzante”, per citare Respinti? È possibile elaborare un progetto politico-culturale con radici autoctone, in modo da sfuggire alla sensata critica del “tu vuoi fa’ l’americano”? Si può lavorare alla costruzione di una proposta simile, adatta al nostro paese così diverso per storia e mentalità dagli Stati Uniti? È concepibile un “fusionismo italico”? A nostro parere, la sfida è allettante e molte sono le rivendicazioni politiche accumulabili a questo connubio.
Si va dallo Stato leggero alla riduzione della pressione fiscale su cittadini e imprese, dalla difesa del libero mercato all’abolizione degli ordini professionali (e del valore legale del titolo di studio), dal federalismo amministrativo (sempre accompagnato però dal patriottismo culturale) ad una tutela dell’ambiente non ideologica ma che nasca dal rispetto per il territorio e dallo spirito comunitario. Questo liberalismo, quando è il caso temperato dal “principio di sussidiarietà” caro alla dottrina sociale della Chiesa dai tempi dell’enciclica Rerum novarum di Leone XIII, avrebbe una declinazione libertaria nella salvaguardia della sfera privata da ogni pretesa di Stato etico. Solo argine alle libertà dell’individuo, la Tradizione, il diritto naturale; ci si fermi al cospetto a quelli che Benedetto XVI chiama “valori non negoziabili” (la libertà va garantita in primis a coloro che non sono ancora nati).
Le nobili figure da mettere in gioco nella costruzione della via italiana al Fusionismo sono forse meno evidenti di quanto lo siano Burke o i padri fondatori per il conservatorismo, ma esistono. Si tratta solo di rispolverare pensatori poco frequentati nel corso di sessant’anni di egemonia culturale cattocomunista. Li troviamo nel cattolicesimo liberale nato negli anni del Risorgimento con Taparelli d’Azeglio, Vincenzo Gioberti e Antonio Rosmini e rifiorito nell’opera di don Sturzo e Luigi Einaudi, ma anche in quella che Marcello Veneziani definì l’”ideologia italiana”.
Gli spunti si possono trovare in Giovanni Papini (che passò dall’adesione alla scuola filosofica pragmatista di origine americana al recupero del Tomismo), in Giuseppe Prezzolini che si definiva “anarchico conservatore”, nella feconda contraddittorietà del pensiero lasciatoci da Giuseppe Rensi come nella lucidità di Augusto Del Noce. E come non richiamare Leo Longanesi? Liberale e libertario, anticlericale per necessità che però custodiva dentro il portafoglio un santino della Madonna di Montenero (lo racconta la grande Gianna Preda in un ricordo affettuoso scritto per “Il Borghese” nel 1957).
Chi vorrà dunque proporre soluzioni “fusioniste” che non debbano troppo al pensiero statunitense dovrà leggere non solo Frank Meyer, ma riprendere in mano la migliore cultura italiana degli ultimi due secoli. Se oltreoceano organizzano tea parties, sarebbe ora che da noi si facesse una bella spaghettata per discuterne.