Italiani ad Herat, capitale dei narcos afgani
04 Giugno 2011
Molti possono essere i responsabili dell’attacco al Gruppo di Ricostruzione provinciale di Herat. Le modalità dell’attentato fanno pensare ad Al Qaida (e a Nassiriya), comunque sia occorre guardare al contesto locale, dove il Prt costruisce scuole femminili, ambulatori, pozzi e impianti di irrigazione. La nostra missione militare ha l’appoggio delle assemblee locali e del governatore della provincia, ma non quello dei veri potenti dell’area. Infatti Herat è come la Colombia ai tempi di Pepe Escobar, come Tijuana in Messico: una città dove scorrono a fiumi i narcodollari. La provincia è abitata da popolazioni tagike che parlano un dialetto iraniano. Ma qui arriva anche l’onda lunga della Cina.
L’Afganistan -scrive Parag Khanna, analista indiano divenuto consulente di Obama a meno di 30 anni- è oggetto del Grande Gioco con la Shangai Cooperation organization (SCO). I cinesi hanno fatto grandi affari con i talebani negli anni ’90 e ora approfittano della presenza Nato per lanciare offerte al ribasso sulle infrastrutture lungo l’asse che scorre tra Kabul ed Herat. L’obiettivo ultimo dei cinesi -scrive Khanna- è "disporre di tragitti affidabili via terra fino all’Iran". Da parte sua il regime di Teheran opera da sud con manovre sui rifugiati afgani e col sostegno ai talebani. Ciò spiega la vera natura del conflitto in quelle terre. Afganistan e Pakistan hanno già lo status di osservatori della SCO, ed è probabile che dopo l’uscita della missione internazionale ne diventeranno membri a pieno titolo.
Herat è una città centrale nel conflitto afgano, come lo era già ai tempi di Alessandro il Macedone, che qui fece edificare una splendida cittadella fortificata. La città diventò ricca ai tempi della Via della Seta, mentre oggi è la capitale del narcotraffico asiatico. Se si vuole capire cosa succede in questa provincia strategica, ci si deve riferire al Messico, nazione dove nel 2010 sono morte 7000 persone per la guerra tra i narcos e l’esercito. I narcotrafficanti della fertile provincia di Herat sanno giocare molto bene -come i loro colleghi di Ciudad Juarez- il gioco dei confini e delle alleanze. Sanno anche giocare il gioco degli attacchi intimidatori, quando qualcuno tocca le coltivazioni e i traffici di oppio e armi. La città è diventata il centro dell’architettura mondiale dei neoricchi, la capitale della "narcotettura", descritta in un servizio fotografico di Monocle.com.
Di fronte alla cittadella di Alessandro, a lato della città medievale, in mezzo ai mercati dove si vendono meravigliose sete, al di sopra della splendida Moschea del Venerdi, spuntano come funghi i palazzi dei narcos afgani. Come le torri medievali di Bologna o i grattacieli di New York, sono il simbolo del loro potere sul territorio. Il modello è Pablo Escobar, il re del cartello di Medellin, settimo uomo più ricco del mondo nel 1989, le cui case -con un ranch da 2000 ettari- sono divenute meta turistica. Le narcocase di Herat sono in stile eclettico persiano, italiano (barocco), arabo, e racchiudono affreschi, chilometri di marmo, specchi, grandi spazi.
Herat, dopo avere sopravvissuto a ogni genere di invasioni, da Genghis Khan ai russi, comincia a cedere sotto la degenerazione del denaro facile. In questo ambiente il modello degli aiuti alla popolazione, su cui si basa l’intervento italiano, dà un enorme fastidio, più del militarismo puro applicato dai nostri alleati.
© Il Secolo XIX
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