J. Kennedy Toole arriva in Italia e la sinistra vuole subito arruolarlo

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J. Kennedy Toole arriva in Italia e la sinistra vuole subito arruolarlo

13 Marzo 2011

Fra i grandi talenti letterari sbocciati negli Usa durante il secolo passato c’è anche John Kennedy Toole da New Orleans. Eppure nessuno o quasi se ne accorse nel corso della sua breve vita. Ignorato e snobbato dalle case editrici, imprigionato nel tragico ruolo di genio incompreso, cadde in depressione. Fu probabilmente quella situazione di isolamento che lo spinse al suicidio a soli trentadue anni nel 1969. Aveva scritto due romanzi. Il primo, intitolato La Bibbia al neon, ancora adolescente. Il secondo fu un vero capolavoro di comicità ed arguzia, ma ignorato per molti anni. Una banda di idioti (in originale “A confederacy of Dunces”, che potremmo anche tradurre con “Una congiura di idioti”) fu pubblicato negli Usa solo nel 1980, grazie alla tenacia della madre di John Kennedy Toole che riuscì ad interessare lo scrittore Walker Percy. Fu così che il misconosciuto scrittore suicida della Louisiana venne perfino omaggiato con il premio Pulitzer postumo e divenne un autore di culto.

Noi dobbiamo alla casa editrice milanese Marcos y Marcos (che quest’anno festeggia trent’anni di attività) la traduzione e diffusione del romanzo, a partire dal 1998. Ma nelle ultime edizioni di Una banda di idioti c’è qualcosa che non va, qualcosa che stona. Non si tratta certo del modo in cui Luciana Bianciardi ha tradotto la brillante prosa di Toole. È l’introduzione a non convincerci. La firma è quella di Stefano Benni, uno dei più noti e talentuosi scrittori italiani. Il bolognese Benni pubblica per Feltrinelli, ha scritto su Cuore di Michele Serra, su l’Espresso e il Manifesto, sul blog di Beppe Grillo; insomma, è notoriamente di sinistra. Non sono certo le sue idee politiche a stonare. Piuttosto è il suo non riuscire a resistere alla tentazione di arruolare forzatamente lo scrittore di New Orleans (e peggio ancora il protagonista del libro, Ignatius J. Reilly) fra le fila di una certa sinistra.

Lasciateci dire che è ormai veramente irritante e patetica questa corsa al marchiare politicamente gli scrittori e le grandi figure culturali. Di questo poco simpatico sport sono da qualche anno campioni  alcuni giornalisti di area finiana che attruppano nell’allegra famiglia della “destra libertaria” un po’ di tutto: da Vasco Rossi a John Fante, da Céline a Capitan Harlock. Ma anche la sinistra militante si difende bene in questa corsa all’etichettatura, al marchio del doc politico o quantomeno alla ripulitura politicamente corretta di scrittori controversi (basti pensare al destrosissimo e imperialista Fernando Pessoa edulcorato da Antonio Tabucchi nelle edizioni Feltrinelli).

"Quando nel mondo appare un vero genio, lo si riconosce dal fatto che tutti gli idioti fanno banda contro di lui", è la frase di Jonathan Swift scelta da Toole come epigrafe per il romanzo, a spiegarne il titolo. Orbene, non ci passa nemmeno per l’anticamera del cervello di dare dell’idiota a Benni, ma pare chiaro come il sole della Louisiana che quando nel mondo appare un vero genio lo si riconosce dal fatto che subito spunta qualcuno che lo vorrebbe etichettare, e proclamare "è dei nostri". Benni ha ragione quando scrive che l’attore più adatto a portare sul grande schermo Ignatius sarebbe stato il grande John Belushi; i suoi personaggi nei film di John Landis che lo resero famoso, The Blues Brothers e Animal house, hanno diverse cose in comune con il protagonista di Una banda di idioti: la mole non proprio longilinea, la voracità, la "tendenza al sabotaggio e alla rissa", lo "sberleffo al perbenismo americano". Simile anche l’esito tragico delle loro esistenze, dato che Belushi morì a trentatre anni per droga.

Se l’obiettivo di Reilly e Belushi è, come scrive Benni, lo stesso, ovvero "ingoiare come fa Gargantua col suo secolo, tutta la retorica, i luoghi comuni, l’ipocrisia dell’America contemporanea", a noi viene da sottolineare la parola "tutta". Tutta la retorica, dunque, compresa quella del radicalismo chic, dell’utopismo infantile coltivato dai figli dei fiori, del politicamente corretto adottato da anni dal mondo democratico statunitense e nostrano. Benni è sicurissimo che Belushi e Ignatius "non avrebbero certo amato George Bush". Probabile che abbia ragione. Ma siamo sicuri che avrebbero amato gli ex sessantottini coniugi Clinton? E che dire dell’ipocrita politica estera di Obama o, peggio ancora, dell’insopportabile mito messianico costruito intorno all’attuale Presidente della Repubblica degli Stati Uniti durante la campagna elettorale (ed ora un po’ appannato).

Secondo Benni la democrazia Usa è stata "guastata sotto la spinta di gang economiche"; come se Carter e i Clinton vivessero invece come anacoreti nei boschi in assoluta povertà. "Il sogno americano" è poi diventato, sempre secondo il bolognese, "un incubo di guerra”. E noi gli chiediamo: quando? Quando il democraticissimo Kennedy idolo di Veltroni diede inizio alla guerra in Vietnam? O forse quando Clinton bombardò con pochi scrupoli la Serbia in compagnia anche dell’ex comunista D’Alema? E Obama che lancia missili sul Pakistan? (nemmeno Bush osò tanto).  Con il progressismo statunitense, e meno che mai con quello nostrano, Ignatius e suo padre Toole non c’entrano molto.

Più lucido di Benni ci pare Percy nell’altra nota introduttiva, Ci ricorda che la battaglia di Ignatius è contro tutti: "Freud, gli omosessuali, gli eterosessuali, i protestanti e tutti gli altri eccessi dell’epoca moderna". L’eroe di Toole è infatti "un anacronismo vivente"; se aizza alla rivolta gli afroamericani (che definisce senza farsi problemi "negri") non è perché si appassiona alla loro sorte, ma solo per amore del caos ed evitare il lavoro nella fabbrica in cui è stato, suo malgrado, impiegato. Se tenta di organizzare un partito di omosessuali, lo fa solo per far crepare d’invidia l’amica progressista Myrna, perfetta caricatura di donzella impegnata politicamente a sinistra, una che in buona fede scambia un topo per uno scoiattolo e ci ricorda un po’ le ragazze che gli scapestrati membri del Gruppo Delta di Animal house pensavano di portare a letto solo parlando di diritti civili e musica folk.

Reilly è "un Tommaso d’Aquino perverso", lettore e seguace della filosofia medioevale (soprattutto di Boezio e del suo saggio De consolatione filosofiae, così importante anche per Dante). È un cattolico reazionario, disgustato dal cristianesimo progressista, un antimoderno che lamenta la mancanza di teologia e geometria nel mondo moderno. Scrive nei suoi appunti che "con il disfacimento del sistema medioevale, gli dei del Caos, della Pazzia e del Cattivo Gusto presero sempre più campo", che l’illuminismo è “un vangelo insidioso". Si prepara all’Apocalisse come un buon fondamentalista del Sud, suona il liuto e disprezza la musica moderna, è devoto a santi medioevali.

Si rifiuta di guidare l’automobile e forse sottoscriverebbe la definizione che di quel mezzo di trasporto diede Russell Kirk, padre del conservatorismo statunitense: "un giacobino meccanico". Vero che non sopporta la paranoia anticomunista degli anni ’50 ma ancora meno le velleità sinistroidi. Non è nemmeno pacifista e progetta le sue vendette contro la banda di idioti che lo circonda mentre trangugia hot dogs. Proprio come il Bush messo in scena da Oliver Stone che decide di invadere l’Iraq mentre mastica un sandwich in cucina. In fondo, pare che Animal house sia il film preferito di Bush junior. Forse è vero che Ignatius non avrebbe amato l’ex presidente degli Stati Uniti, ma sicuramente non si sarebbe unito al corteo, come il compagno Romeo protagonista di una vecchia poesia scritta da Benni.