Katya Koren lapidata perché troppo bella

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Katya Koren lapidata perché troppo bella

18 Giugno 2011

Un caso di cronaca nera in Crimea ha riacceso i riflettori internazionali sul problema dell’integrazione interculturale in Europa. Forme di estremismo religioso attecchiscono in tutta Europa, al di là dei confini di quegli stati teocratici in cui la negazione dei diritti umani la fa da padrone. Una pericolosa cartina tornasole di una fallimentare politica di integrazione dei migranti provenienti da paesi di origine mussulmana. Un problema che l’Europa potrebbe pagare a carissimo prezzo nel prossimo futuro.

Protagonista di questo ennesimo fatto di cronaca nera è una diciannovenne di origine mussulmana, Katya Koren. La sua colpa, a detta dei tre assassini, di cui uno di soli sedici anni, è l’aver infranto le leggi della sharia, di essersi concessa alla vanità e all’ostentazione del proprio corpo e bellezza. Essere troppo bella. Aver sfoggiato il suo volto e il suo corpo all’esterno, anche in concorsi di bellezza. Questa la sua colpa. La lapidazione la sua condanna. Il corpo deturpato dai colpi delle pietre, in primis il volto, quei lineamenti che fondevano in sé l’Oriente e Occidente tanto apprezzati nei concorsi di bellezza. Un volto da cancellare.

Ad una settimana di distanza dalla denuncia della sua scomparsa, il cadavere di Katya Koren è stato trovato sepolto a poca distanza da casa sua. I sospetti della polizia, che sta attualmente indagando sul caso, si sono concentrati immediatamente negli ambienti vicini alla famiglia della ragazza. Secondo quanto trapelato finora è morta per lapidazione. Tre giovani appartenenti alla comunità mussulmana locale sono stati arrestati con l’accusa di omicidio volontario. Uno di loro, di sedici anni, ha già confessato l’omicidio. Secondo quanto riferito da fonti locali, il giovane avrebbe ammesso di aver partecipato materialmente alla lapidazione di Katya Koren, perché così prescritto dalla sharia. Nessun rimorso per il gesto. Nessun senso di colpa per l’omicidio.

Una sentenza capitale mai emessa da alcun tribunale ucraino e tantomeno di qualche paese che fa della sharia la propria legislazione. Solo il frutto di una scellerata e preoccupante male interpretazione delle leggi islamiche da parte di alcuni giovani. Secondo quanto prescritto dalla sharia, infatti, la morte per lapidazione sarebbe riservata alle adultere e per altri reati, circoscritti e definiti. Una sentenza capitale che deve seguire specifiche regole e procedure: solo un’autorità giudiziaria competente, un tribunale islamico, può emettere questo tipo di sentenza. Un elemento importante se si considera l’alto numero di lapidazioni sommarie che avvengono nel mondo, come denunciato da Amnesty International. Una morte da infliggere lentamente: le pietre devono essere non troppo grandi, perché la morte non deve sopraggiungere immediatamente, ma con dolore e sofferenza del condannato.

Nel suo ultimo report sulle sentenze capitali eseguite in tutto il mondo, pubblicato nell’aprile di quest’anno, Amnesty International rileva che nessuna lapidazione sarebbe avvenuta nel 2010 in esecuzione di sentenza di alcun tribunale. Un dato allarmante se si considera che le morti per lapidazioni non sono diminuite nell’ultimo anno: una sommarietà nell’eseguire questa terribile esecuzione a morte è l’elemento cruciale del report di Amnesty, da sempre impegnata nella denuncia di violazioni dei diritti umani in tutto il mondo. Iran, Nigeria e Pakistan sarebbero i tre paesi che occuperebbero il podio tra quelli in cui si registrano il maggior numero di morti per lapidazione.

Proprio in Iran, una decina di donne e quattro uomini sarebbero al momento in attesa che venga eseguita la loro condanna a morte per lapidazione: la colpa, l’adulterio. Una pratica barbara, come definita dalla stessa Unione Europea, che ha occupato per mesi le pagine dei giornali internazionali per il caso di Sakineh Mohammadi Ashtiani, accusata dell’omicidio del marito e condannata alla morte per lapidazione per adulterio. L’avvocato di Sakineh ha sempre denunciato gli abusi subiti dalla donna quando viveva con il marito: un farmacodipendente che più volte l’ha picchiata e costretta a prostituirsi per ottenere i soldi per la droga. In quell’occasione la comunità internazionale si mobilitò con tanta forza da costringere le autorità iraniane a sospendere l’esecuzione della sentenza capitale di Sakineh.

Una decisione che non mina la convinzione delle autorità iraniane. Infatti, la pena di morte è garanzia dell’ordine pubblico in Iran, un mezzo per mantenere e preservare la sicurezza sociale e morale del paese. Teheran rafforza il proprio regime, applicando una politica di intransigenza nei confronti di tutto ciò che potrebbe lasciare spazio ad un’apertura all’Occidente. Il 15 giugno, ad esempio, il Telegraph ha annunciato la decisione dell’Ayatollah Ali Khamenei, ma soprattutto del presidente Mahmoud Ahmadinejad, di proibire alle donne di indossare bracciali, collane, abbigliamenti “non islamici” e tantomeno di lasciare trasparire piccoli lembi di pelle dall’abbigliamento. Un provvedimento che non si ferma a un mera proclama morale, ma che prevede il dispiegamento in tutto il paese di più di 70mila “agenti per la morale”. Una proclama che si incastona nel più generale piano per la sicurezza morale del paese. Questa decisione è emblematica della sintomatica debolezza di una classe dirigente ormai in declino, di un regime cosciente della propria fragilità che non trova altra soluzione se non la chiusura ed intransigenza.

In molti rigettano da tempo la pena di morte, considerata una pratica brutale e quantomeno contraria ai principi di reinserzione sociale e compensazione del danno, principi cardine del sistema penale occidentale. Oggi, il problema delle esecuzioni capitali, e più in generale dell’integralismo e del fanatismo religioso, si estende a macchia d’olio. Il pericolo più grande è la sommarietà delle sentenze emesse non da tribunali legittimi, spesso l’assenti di giustizia e legalità. Riflettere sull’impatto che i flussi migratori hanno sui sistemi sociali e giuridici dei paesi di accoglienza è un imperativo categorico cui i Governi non possono esimersi. In primis quelli appartenenti all’Unione Europea.